Solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame
Lettera di Mohammad Brash, prigioniero palestinese nel carcere israeliano di “Aishel”
Non dite a mia madre che sono diventato cieco.Quando viene a trovarmi,
lei non sa che sono diventato cieco
dopo che i miei occhi si sono ammalati e
il buio ha invaso il mio corpo.
Lei mi vede ma io non la vedo.
Le sorrido da dietro la rete di ferro
e faccio finta di vederla
quando mi mostra le fotografie dei miei fratelli,
dei miei amici e dei nostri vicini.
Non ditele che sono anni che aspetto un’operazione
per avere una cornea nuova
e che sono anni che la direzione del carcere rimanda,
rimanda e poi rimanda ancora
dando ai miei occhi tutte le ragioni
per dimenticare la luce del giorno.
Non raccontatele del mio corpo segnato da ricami di schegge di piombo,
né che il mio piede sinistro è stato amputato
e sostituito da uno posticcio
mentre quello destro è già ammuffito e si sta distaccando dalla vita.
Non raccontatele come un prigioniero perde la cognizione dei sentimenti
più elementari, condannato a vedere soltanto ferri e cenere
e mai il bianco radioso
e i cavalli sellati dal silenzio
che guidano verso la speranza.
Ditele che sono vivo, che sono sano, che i miei occhi vedono,
che cammino, corro, gioco, salto, scrivo e leggo…
Trascino il mio dolore su queste stampelle
e sono con mio fratello martire,ora in cielo,
e lo sento chiamarmi con la forza del tuono e del fulmine…
Non ditele che non conosco più il sonno
che mi nutro di sedativi per intorpidire le mie membra…
che quando mi muovo per cercare le mie cose sbatto
contro le sbarre o il corpo di un altro prigioniero
che dorme accanto a me e si alza
per aiutarmi ad andare in bagno…
Stare sveglio mi addolora e il sonno mi ha abbandonato.
Non dite a mia madre della polvere da sparo che mi è entrata negli occhi
riempiendoli di sangue, sulla strada del campo
in quel pomeriggio feroce
quando i cecchini mi hanno scelto come bersaglio
facendo volare il mio piede lontano.
Prima che il buio mi inghiottisse, si è impressa nei miei occhi
l’immagine di un bambino
che mi correva incontro, portando una bandiera,
e gridava: “Martire! Martire!”
Ditele che non mi basta sognarla,
che sono straziato dalla nostalgia di lei,
che incido segni sul muro per ricordarla e
dimenticare i miei dolori e l’oscurità che mi avvolge.
Ditele che seguo l’ascesa della sua preghiera fino a toccare il cielo,
mi fermo e poi a malincuore ritorno
per non ferirla con la mia morte
ma rimango sulla porta come se avessi già scelto il mio domani.
Non dite a mia madre che Israele del ventunesimo secolo
ha trasformato le carceri in laboratori sperimentali
dove coltivare malattie che consumano i nostri corpi
lentamente come si strugge la cera delle candele.
Non ditele che ho già imparato i nomi di tutte le malattie più strane
e delle medicine più bizzarre
e che conosco il sapore di tutti gli anestetici
che sono costretto a inghiottire
mentre osservo il corpo di Zakarya Issa, amico e fratello,
scivolare prima di me nella vita senza vita di un lungo coma.
Non raccontate a mia madre dei malati
e delle malattie che accendono nei loro corpi guerre e follia:
Ahmad Abu Il-Rub,
Khaled Al-Shawish,
Ahmad Al-Najjar,
Mansour Mauqadeh,
Akram Mansour,
Ahmad Samarah,
Wafa’ Il-Bis,
Rima Daragmeh,
Tareq Asy,
Motasem Raddad,
Ryad Il-O’mor,
Yasser Nazzal,
Ashraf Abu Dree,
Jihad Abu Hanyeh
tutti massacrati dal carcere e dalla malattia,
che uno stato arrogante capace soltanto
a dispensare morte e funerali,
ci infligge.
Ditele che solo trenta porte mi separano
dalla porta di casa
e che avanzo di un passo ogni volta che vola un uccello,
ditele che il fuoco mi avvampa gli occhi,
il filo spinato mi trafigge il petto
e che mi rifugio nel suo cuore e nelle sue preghiere.
Mohammad Brash
(traduzione a cura di Bilal Murar e Gabriella Cecilia Gallia
segnalato da F. Ismail)
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