“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

giovedì 31 luglio 2008

Protesti? Sei morto.

http://www.associazionezaatar.org/index.php?option=com_content&task=view&id=232&Itemid=1

E non importa se sei un bambino o un vecchio. Non importa se protesti disarmato contro il muro che ti impedisce di vivere. La pulizia etnica in Palestina è cominciata nel 1948, all'epoca le notizie faticavano a girare, non c'era internet e gli israeliani erano abili a nascondere, persino ai nuovi coloni immigrati.

Adesso non siamo più nel 1948, adesso la pulizia etnica della Palestina continua sotto gli occhi di tutti. Adesso non ci sono più scuse. TUTTI quelli che fingono di non sapere sono complici. TUTTI.

Un ragazzino di 11 anni di nome Ahmed Ussam Yusef Mousa è stato ucciso approssimativamente alle 18.00 nei pressi del villaggio palestinese di Nil’in. E’ stato colpito una volta alla testa da un proiettile a distanza ravvicinata.
Secondo i volontari dell’ISM presenti all’interno di Nil’in, il confronto è iniziato tra gli abitanti e l’esercito israeliano; si sono sentiti spari e 5 persone sono state ferite.
Le manifestazioni si sono tenute a Nil’in quasi ogni giorno nelle passate settimane, contro il muro dell’apartheid israeliano, dichiarato illegale dalla Corte Internazionale dell’Aia nel 2004. Il muro priverà il villaggio di almeno 2.500 dunums di terra coltivabile, e metterà a rischio l’esistenza di un intera comunità.

La notizia è arrivata lo stesso giorno che Victor MacDiarmid, un attivista per i diritti umani canadese è stato deportato dall’aeroporto di Ben Gurion a Tel Aviv. Il 23 enne attivista è stato colpito due volte da proiettili, una volta alla spalla e un'altra al ginocchio da proiettili d’acciaio ricoperti, mentre assisteva alle proteste di Nil’in. E’ stato arrestato mentre faceva fotografie durante la manifestazione delle donne del 23 luglio.

L’esercito Israeliano e la polizia di frontiera hanno incrementato sistematicamente le ostilità e le violenze in risposta alle manifestazioni. Una notizia arrivata questa mattina dice che il comandante israeliano del Battaglione Lt. Col Omri, è stato sospeso per 10 giorni come punizione per la sua condotta a Nil’in. Omri ha trattenuto per una spalla il 27 enne palestinese Ashraf Abu Rahma mentre era ammanettato e bendato, quando un altro militare gli ha sparato ad un piede.

Almeno 11 altri palestinesi sono stati uccisi mentre protestavano contro il muro dell’aparthied israeliano. I loro nomi sono:

- Mohammad Fadel Hashem Rayan, age 25
- Zakaria MaHmud Salem, age 28
- Abdal Rahman Abu Eid, age 62
- Mohammad Daud Badwan, age 21
- Diaa Abdel Karim Abu Eid, age 24
- Hussain mahmud Awwad Aliyan, age 17
- Islam Hashem Rizik Zhahran, age 14
- Alaa Mohammad Abdel Rahman Khalil, age 14
- Jamal Jaber Ibrahim Assi, age 15
- Odai Mofeed Mahmud Assi, age 14
- Mahayub Nimer Assi, age 15


For more information contact the ISM Media Office (970)-2-2971824.

For ISM volunteers in Nil’in: Camilla (972) (0)54 2385681, Helena (972) (0)549725207.
traduzione di Elisabetta

Migliaia di persone al funerale del bambino palestinese ucciso dai poliziotti israeliani
Nilin
Oltre tremila persone sono scese in piazza a Nilin, nei territori palestinesi, per partecipare al funerale di un bambino di 12 anni Ahmed Hammad Moussa, ucciso, secondo i palestinesi, dalla polizia di frontiera israeliana. Prima dell’inumazione ha preso la parola Rafiq Husseini, consigliere del presidente palestinese Abu Mazen: “L’esercito israeliano, con le sue azioni a Nilin e in tutto il resto della Cisgiordania, cerca di distruggere ogni occasione di pace e rendere impossibile la creazione di due stati indipendenti capaci di vivere l’uno al fianco dell’altro”. Il bambino è rimasto ucciso ieri durante uno scontro tra la polizia di frontiera e i soldati israeliani e un gruppo di palestinesi che affrontavano i militari armati di sassi. Una pallotta ha raggiunto il bambino alla testa e l’ha ucciso. La polizia israeliana ha parlato di “un infelice incidente” e annunciato l’apertura di un’inchiesta.

Coloni israeliani attaccano bambini palestinesi e internazionali sulla strada per casa mentre tornavano dal campo estivo

PER UNA IMMEDIATA DIFFUSIONE.

Per ulteriori informazioni contatta il Christian Peacemaker Teams ad At-Tuwani:0542531323
27 luglio 2008

AT-TUWANI – Domenica 27 luglio, all' 1:50 del pomeriggio, almeno tre coloni israeliani hanno attaccato dei bambini palestinesi e due accompagnatori internazionali mentre stavano camminando, di ritorno verso il loro villaggio di Tuba. I bambini stavano frequentando il campo estivo organizzato nel villaggio di At-Tuwani. Mentre quattordici bambini e due internazionali del Christian Peacemaker Teams (CPT), stavano camminando in una valle a sud dell'avamposto israeliano illegale di Havot Ma'on, un colono con il volto coperto è sceso dalla collina lanciando sassi con una fionda. I bambini e il volontario del CPT, Jan Benvie, sono corsi in avanti, ma altri coloni i stavano avvicinandosi a loro provenendo dalla parte opposta della valle. Nessuna delle pietre lanciate dai coloni ha colpito i bambini, che hanno un'età compresa tra i 6 e i 15 anni, cosicchè essi hanno potuto mettersi in salvo.

Il volontario del CPT, Joel Gulledge, stava filmando l'aggressione. Non appena il colono mascherato notò Gulledge con la videocamera, cominciò a lanciargli contro delle pietre. Il colono colpì Gulledge ad una gamba con una pietra tanto che egli non fu più in grado di muoversi. A questo punto il colono lo affrontò, gli strappò la videocamera e cominciò a percuoterlo con una pietra e con la videocamera. Dopo di ciò il colono si allontanò portandosi dietro la videocamera.

Il 22 luglio, la scorta militare non aveva accompagnato i bambini. Solo sette bambini avevano accettato il rischio di ritornare da soli a At-Tuwani. I bambini avevano informato il CPT che almeno altri otto bambini non si erano recati al campo estivo perchè avevano avuto troppa paura a dover affrontare il percorso senza una scorta militare. Di nuovo, la mattina del 23 luglio, l'esercito si era rifiutato di fare da scorta ai bambini. Mentre i bambini se ne andavano senza scorta verso il campo estivo, erano stati inseguiti da tre coloni, uno dei quali aveva il volto coperto ed aveva una mazza. Il 26 luglio un rappresentante dell'esercito informò gli internazionali che i militari non avrebbero più fornito la scorta per i bambini che stavano aspettando l'arrivo dell'esercito, nonostante che, nel frattempo, quattro coloni dell'avamposto illegale di Havot Ma'on stessero gridando contro quei fanciulli. Il rappresentante non volle qualificarsi e il comandante di brigata si rifiutò di fornire la scorta. Quando l'internazionale cercò di spiegare la pericolosità della situazione per i bambini, il rappresentante militare rispose, "Non ritengo che i coloni aggrediranno i bambini."

Nell'ottobre del 2004, coloni israeliani avevano aggredito scolari palestinesi e internazionali nella stessa zona dove è avvenuto l'attacco del 27. Due internazionali erano stati ricoverati in ospedale e, solo dopo che i mezzi di informazione internazionali ebbero dato spazio all'aggressione, il parlamento israeliano aveva raccomandato che l'esercito israeliano fornisse una scorta giornaliera perchè i bambini potessero recarsi e tornare da scuola.

(trad. mariano mingarelli)
Operation Dove - Nonviolent Peace CorpsPalestine - Israel Community Pope John XXIII
e mail: operationdove@gmail.comwebsite: www.operationdove.orgmobile: 0548 130 634

Gli israeliani si stanno prendendo tutta Gerusalemme. Confische e demolizioni contro i palestinesi


Jamil Othman, presidente della provincia di Gerusalemme, ha rivelato un piano israeliano per confiscare 1100 ettari dei terreni dei villaggi “as-Sawahrah as-Sharqiyah” e “Abu Dis”, a nord-ovest di Gerusalemme Est. In un comunicato stampa, Othman ha dichiarato che “gli abitanti palestinesi hanno ricevuto gli ordini di confisca delle loro terre per costruire un centro residenziale per gli israeliani”. E ha spiegato che questa costruzione serve per collegare le colonie di “Kidar” e “Ma'aleh Adomim”, due delle più grandi di Gerusalemme. Egli ha spiegato che ciò avviene “nell’ambito del progetto denominato 'E1' che grava sui terreni di as-Sawahrah as-Sharqiyah”, e ha sottolineato che le autorità di occupazione hanno progettato la costruzione di circa 6000 unità abitative per ospitare 30 mila coloni israeliani. E ha invitato i proprietari delle terre minacciate dalla confisca ad adoperarsi per opporvisi legalmente. Nonostante le promesse e le pressioni internazionali, Israele prosegue nella costruzione di centinaia di unità abitative coloniali intorno a Gerusalemme per separare la città dal ambiente palestinese e per assumerne totalmente il controllo, espellendone i legittimi abitanti. Sempre a Gerusalemme, nonostante la presenza di internazionali, nonostante un certo clamore mediatico, nonostante le proteste, le autorità israeliane sono riuscite a far distruggere una palazzina di sei piani che ospitava gli appartamenti di 5 famiglie palestinesi. La casa apparteneva alla famiglia Abu 'Eisha e si trovava a Beit Hanina, a Gerusalemme Est. L'avviso di demolizione "per mancanza di autorizzazione edilizia" era arrivato domenica e le ruspe si erano precipitate sul posto lunedì all'alba, ma la distruzione era stata bloccata dall'opposizione di attivisti. In serata, la demolizione è stata completata facendo ricorso alla dinamite.Testimoni locali hanno racconto che un vasto spiegamento di militari e poliziotti è giunto sul posto per impedire a cittadini e ad attivisti, radunati nei pressi della casa da domenica, di avvicinarsi all'edificio. Dopo aver sgombrato la casa, i militari hanno piazzato degli esplosivi e l'hanno fatta saltare in aria: una palazzina ridotta a un cumulo di detriti. Nella mattinata di ieri, erano scoppiati incidenti tra i gruppi di attivisti e le forze israeliane e diverse persone erano rimaste ferite, tra cui Hatim Abdul-Qadir, consigliere per gli Affari di Gerusalemme del premier della Cisgiordania, Salam Fayyad, che aveva parlato di "violenza brutale e senza precedenti". La pratica delle demolizioni di abitazioni situate a Gerusalemme Est, con la giustificazione della mancanza di permessi - che Israele non concede quasi mai -, è molto diffusa ed è parte del piano di ebraicizzazione in corso nella Città Santa.


Una politica estera per l'Unione Europea

Scritto da Giorgio Forti
Mercoledì 23 Luglio 2008 06:14
La Fabbrica. eu, 22 Luglio 2008

FORZA EUROPA!?
Credo che, tra i tanti problemi e progetti dell'UE, indicati anche dall'on. Gozi, la politica estera debba avere una rilevante priorità, perchè la UE non ha una propria politica estera, ma è in sostanza subalterna a quella degli USA. Poco contano infatti le espressioni retoriche di alcuni esponenti politici, quali Sarkosy e Tony Blair al quale, dopo tanti anni di governo, è stato affidato in Israele-Palestina un incarico per il quale è assolutamente inadatto, perchè è tutto sbilanciato in favore di una visione filoisraeliana e colonialista del problema palestinese. Occorre che l'UE promuova la pace in quella regione in modo effettivo, cioè prendendo una posizione di decisa critica al Governo israeliano, che si concreti nell'adozione di misure forti, come la sospensione dei rapporti economici e di particolare favore in tutti i campi, per indurre Israele a cessare la politica di durissima persecuzione contro i Palestinesi, che ha ormai superato il livello di guardia del genocidio, ed a arrivare rapidamente al ritiro di esercito e coloni dai territori palestinesi occupati e da Gaza. Solo in questo modo si potrà arrivare alla costituzione di uno Stato Palestinese, oppure di uno stato unico per i due popoli, come sceglieranno gli interessati in completa autonomia. Ma l'autonomia non è possibile senza il ritiro dell'esercito occupante, e la totale cessazione degli atti di inaudita inumanità che Israele sta praticando nella striscia di Gaza ed in Cisgiordania. Questo problema è cruciale per la pace nel mondo: la situazione in Israele-Palestina ha un'influenza determinante nel promuovere un allargamento della guerra a tutto il vicino e medio Oriente, ed allo scoppio della terza guerra mondiale. Questo sia per la grande potenziale militare di Israele, sia per la sua enorme influenza sulle decisioni degli Stati Uniti. Molti altri problemi sono legati a questo:L'Europa deve quindi prendere decisamente, intendo con atti concreti di grande forza, decisioni che possano portare ad una giusta soluzione del problema Palestinese ed alla pace in quella regione: è un problema di giustizia fondamentalmente, a cui sono associati nostri fondamentali interessi.

mercoledì 23 luglio 2008

APARTHEID! "Misure così restrittive neppure durante l'apartheid in Sudafrica"

Hebron, Sudafrica

di Amira Hass*
Internazionale 753, 17 luglio 2008;
internazionale.it/firme/articolo.php?id=19786

Se il prestigio morale avesse il suo peso, dieci giorni fa l'asfalto di Shuhada street, una strada deserta nella città vecchia di Hebron, si sarebbe incrinato. Zaki Achmet era sconvolto dalla vista delle case vuote, che i palestinesi avevano dovuto lasciare a causa degli abusi dei coloni e dei soldati israeliani. Militante antiapartheid da quando aveva 14 anni, Achmet è il fondatore della Treatment action campaign (Tac), un movimento di base che si batte per assicurare la prevenzione e le cure contro l'aids per tutti i sudafricani. Anche lui contagiato, si è rifiutato a lungo di assumere i farmaci antiretrovirali: prima bisognava garantirli a tutti i malati di aids. Perfino Nelson Mandela è andato a trovarlo, implorandolo di curarsi, ma lui ha rifiutato. Ha cambiato idea solo quando l'assemblea della Tac ha votato perché si lasciasse curare. Era l'agosto del 2003. Poco dopo il governo sudafricano ha reso gli antiretrovirali disponibili per tutti.

A Hebron c'era anche Barbara Hogan, che ascoltava il racconto di una caparbia donna palestinese, rimasta a vivere nella sua casa. I coloni le impediscono di percorrere a piedi la strada, così deve saltare di tetto in tetto e passare per i vicoli interni della città vecchia. La Hogan è stata condannata a dieci anni di carcere per aver aderito all'African national congress (Anc). Di origini ebraiche, oggi è deputata.

Il giudice dell'alta corte di giustizia Dennis Davis, membro attivo della comunità ebraica, osservava con stupore mentre un colono, armato di megafono, cercava di ostacolare la loro visita guidata. Lui e il suo collega della corte suprema di appello, Edwin Cameron, e gli altri giuristi e difensori dei diritti umani presenti nel gruppo, tutti vecchi avversari dell'apartheid, hanno visto con i loro occhi come funziona il sistema: la polizia israeliana è intervenuta per arrestare tre dei giovani militanti israeliani che guidavano il gruppo, permettendo invece al colono di continuare a minacciare i visitatori. Gli attivisti antiapartheid non hanno avuto nessuna difficoltà a capire perché negli ultimi dieci anni decine di migliaia di palestinesi sono stati costretti a lasciare la città vecchia. Nozizwe Madlala-Routledge, ex viceministra della sanità, ha ascoltato attentamente mentre le spiegavano dove un palestinese può camminare e dove no.

Non ricordava misure così restrittive durante l'apartheid in Sudafrica. Questi 23 militanti sudafricani hanno chiesto di visitare la Cisgiordania per farsi un'idea della situazione. Quando i tre israeliani sono stati portati via su un furgone della polizia, alcuni membri della delegazione hanno chiesto di parlare con i rappresentanti dei coloni, abili a nascondersi dietro parole di miele. "Siete stati ingannati", ha detto uno di loro, riferendosi in particolare a Yehuda Shaul, uno dei tre arrestati. Shaul è un ebreo ortodosso che, dopo aver prestato servizio a Hebron come soldato regolare, è rimasto sconvolto per le violazioni dei diritti umani dei palestinesi e ha fondato un'associazione chiamata Shovrim shtikat ("rompere il silenzio"). Poi ha cominciato a raccogliere le testimonianze dei soldati.

I membri della delegazione hanno capito subito che non aveva senso continuare la discussione. Incapaci di esprimere a parole il loro disappunto, hanno sollevato i pugni e intonato l'inno dell'Anc. Questo loro canto tranquillo e potente è stato trasmesso via cellulare a Shaul e ai suoi due compagni, che si trovavano già nella stazione di polizia di Hebron.

*A. Hass: "È una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, scrive per il quotidiano Ha'aretz e ha una rubrica su Internazionale."
Da marzo 2008 A. Hass ha preso un anno di aspettativa da Ha'retz (http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=19616) per "sottrarsi ad una riorganizzazione del quotidiano israeliano" (http://www.rete-eco.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2165:haaretz-si-lriorganizzar-via-i-giornalisti-pacifisti&catid=5:politiche-israeliane&Itemid=15)

Tutti gli articoli di Amira Hass pubblicati da Internazionale:
http://www.internazionale.it/firme/archivio.php?author_id=30

martedì 22 luglio 2008

No al silenziatore

Ventuno anni fa veniva assassinato a Londra, con uno sparo alla testa, NAJI AL ALI, vignettista palestinese, conosciuto in tutto il mondo arabo. La firma sulle sue vignette era un "bambino un po' spelacchiato" di nome HANDALA, sempre disegnato di spalle, divenuto simbolo della Resistenza palestinese.

Handala è stato egregiamente descritto da Vauro Senesi:

"Di spalle
E' un bambino, piccolo, un po' spelacchiato, piedi nudi e toppe sui vestiti, difficile vederne il volto perchè sta sempre di spalle. E' così che Naji Al Ali disegnava Handala, il suo personaggio principale. Handala c'è in quasi tutte le vignette di Naji, una presenza muta, ma ostinata. Come quella del popolo palestinese al quale si vuole negare identità, ma che come Handala, c'è.

Handala senza volto riesce a gridare contro la negazione. Volta le spalle a chi ha voltato le spalle al dolore dei palestinesi e guarda, guarda le vicissitudini della sua gente che Naji disegna con amore. Se sul volto di Handala ci sono lacrime o sorrisi solo quella gente potra scorgerli, perchè è girato costantemente verso di loro. Voglio immaginare anche Naji di spalle, mentre disegna con quel suo tratto sottile ed insinuante come la sabbia del deserto, curvo sul foglio sul quale tesse il racconto del suo popolo, mischiando all'inchiostro il dolore e l'ironia, la rabbia e la poesia. Tutta la sua intelligenza e la sua fantasia costrette dall'amore a concentrarsi su un dramma. Quanti fogli ha riempito. E Handala, con la sua schiena, sempre lì, forse per tenerci un po' distanti da quei disegni di cui fa parte e che gli appartengono. E' lui il primo a guardarli. Noi possiamo solo sbirciare da dietro le sue spalle imparando la dignità.

Noi gli occidentali, noi gli israeliani, noi gli emiri o i piccoli dittatorelli dei regimi arabi, perchè il popolo di Palestina è dall'altra parte del foglio e può vedere il volto di Handala in quello dei tanti bambini, suoi figli che colmano con le loro risa, i loro giochi e troppo spesso con le loro morti, le strade polverose dei campi profughi, i vicoli antichi di Gerusalemme e gli uliveti d'argento della Cisgiordania. Naji aveva la fortuna degli artisti, poteva usare il foglio come una porta magica, attraversarlo e raggiungere la sua terra anche dall'esilio. Naji aveva la generosità dei poeti e cercava di portarci con se, per aiutarci a capire. Naji e morto, è stato ucciso, rimane solo Handala.

Chissà forse se impareremo a guardarlo con gli occhi di un palestinese un giorno si girerà verso di noi.

Tratto dal volume No al silenziatore - Tracce Edizioni

Per una biografia di Naji Al Ali e non solo:



lunedì 21 luglio 2008

VIGLIACCHI !!!


dalla Rebubblica del 21 luglio
"Video choc: gli spara a freddo"

"Un soldato israeliano colpisce un giovane palestinese arrestato durante scontri nella West Bank

Il documento-denuncia diffuso dall'associazione pacifista B'Tselem.
Il giovane palestinese viene ferito ad una gamba mentre ha le mani legate e gli occhi bendati. L'episodio sarebbe avvenuto due settimane fa, alla presenza di un tenente colonnello dell'esercito israeliano."

Coloni aggrediscono i pastori, la polizia israeliana arresta i volontari

20 luglio 2008: Susya - Hebron, arrestata una volontaria italiana dell'associazione Zaatar (http://www.associazionezaatar.org/) insieme con altri 2 attivisti palestinesi e a 3 internazionali

"Gabriella, si trova dal 19 luglio in un villaggio di pastori, Susya, non lontano da Hebron e circondato da postazioni dell’esercito e da colonie. Alloggia con gli altri internazionali (un inglese e 2 svedesi) nelle tende, esattamente come i pastori che sono stati cacciati dalle loro case/grotte nell’86. Si tratta di 5 famiglie, circa 20 – 30 persone che hanno a disposizione poca acqua e un solo bagno.

L’elettricità è fornita da un pannello solare e da un impianto eolico. Il compito dei volontari internazionali è di accompagnare al mattino presto i pastori con le greggi al pascolo. La presenza degli internazionali non è garanzia di protezione per i palestinesi, ma senza una presenza internazionale gli attacchi dei coloni sarebbero molto più violenti e pericolosi. Le violenze sono quotidiane e si basano sugli insulti e su aggressioni vere e proprie con sassi e a volte spari, i coloni infatti sono tutti pesantemente armati. Le aggressioni sono spesso indirizzate anche agli internazionali che proteggono i palestinesi. Il 18 luglio, un internazionale è stato ferito lievemente da un sasso lanciato da un colono.

Anche i soldati si danno da fare, Gabriella ci ha raccontato che ieri (19 luglio) alcuni di loro sono entrati in una casa che in quel momento era vuota, per rubare e si sono allontanati solo quando si sono accorti che un internazionale stava osservando la scena."
Leggi il racconto di Gabriella:

domenica 20 luglio 2008

Apartheid dell'acqua - Betselem: stesso liquido, prezzi diversi

di Michele Giorgio, Gerusalemme
il Manifesto, 19 luglio 2008

Piscine piene per i coloni, centinaia di migliaia di palestinesi senza accesso alla rete idrica. Il controllo delle sorgenti da parte di Israele, il Muro e gli accordi di Oslo hanno creato una discriminazione inaccettabile

«Non ci mancava nulla, avevamo tutto: la terra da coltivare, gli alberi, l'acqua», dice Abdel Latif Khaled, volgendo lentamente lo sguardo verso la campagna di Jayyus, nel nord della Cisgiordania occupata. «Ora - aggiunge a voce bassa - c'è rimasto poco o niente. Gli israeliani ci hanno tolto buona parte della terra e quando hanno completato il muro (in questa zona) ci hanno tagliato fuori dai nostri pozzi. L'acqua per irrigare i nostri campi un tempo era abbondante, adesso dobbiamo comprarla». Jayyus ha sete, come tanti villaggi palestinesi, ma può dirsi paradossalmente «fortunato».

«L'acqua per l'agricoltura quest'anno riusciremo ad averla grazie al pozzo di Azun ma sappiamo che non potrà durare a lungo, ancora due-tre anni e le terre che ci rimangono diventeranno deserti se Israele non cambierà la sua politica», avverte Abdel Latif. In altre aree della Cisgiordania, in particolare a sud di Hebron, la situazione è disperata e da qualche settimana Tayyush, un'organizzazione pacifista arabo-ebraica, esorta i suoi attivisti ad acquistare acqua potabile e a distribuirla in quelle zone alle famiglie palestinesi.

Un problema che non hanno gli abitanti delle vicine colonie israeliane. Loro non solo hanno acqua sufficiente da bere, ma possono permettersi anche un tuffo in piscina nelle ore più calde del giorno. Dopo 41 anni di occupazione militare oltre 150 villaggi (220mila abitanti) della Cisgiordania non sono collegati alla rete idrica mentre un insediamento israeliano, non appena viene completato, riceve immediatamente elettricità e acqua.

E così il problema dell'emergenza idrica nei Territori occupati si ripropone ad ogni estate e ogni autunno. Ma anno dopo anno, quelli che soffrono sempre di più sono i palestinesi, perché non hanno alcun controllo su gran parte delle loro riserve di acqua che, gestiste dall'israeliana Mekorot, vengono dirottate verso lo Stato ebraico e lasciate solo in minima parte in Cisgiordania. A Gaza la crisi è spaventosa, i coloni non ci sono più da tre anni, ma le riserve riescono ormai a coprire in minima parte il fabbisogno della popolazione e la differenza non è colmata dall'acqua che arriva dal sistema idrico israeliano. A lanciare l'allarme, l'ennesimo senza alcun risultato, è stato all'inizio di luglio il centro israeliano per i diritti umani Betselem. «La cronica scarsità d'acqua (nei Territori occupati palestinesi) è il risultato in buona parte della politica discriminatoria che Israele attua nella distribuzione delle risorse in Cisgiordania e dei limiti che pone all'Autorità nazionale palestinese nell'aprire nuovi pozzi», ha denunciato in un rapporto presentato nei giorni scorsi (www.btselem.org/english/water/2008070_acute_water_shortage_in_the_west_bank.asp.). «Il consumo medio per persona in Israele è 3,5 volte superiore a quello dei palestinesi», ha aggiunto Betselem, precisando che l'accesso all'acqua senza discriminazioni è sancito dalla legge internazionale come un diritto umano fondamentale. Un palestinese in media ha a disposizione 66 litri di acqua al giorno ma durante l'estate - ha accertato Betselem - la Mekorot taglia ulteriormente le forniture per garantire un flusso costante di acqua nelle colonie. Così i 66 litri diventano, in non pochi casi, 22. Ma la compagnia pratica anche tariffe «discrezionali»: un israeliano paga un metro cubo di acqua per uso domestico circa un dollaro e per uso agricolo 40 centesimi di dollaro, mentre i palestinesi pagano un dollaro e mezzo al metro cubo, senza differenza tra acqua potabile o per l'agricoltura. «Per noi l'acqua è un miraggio, è di fronte a noi abbondante, nelle colonie israeliane, che circondano il nostro villaggio ma per averla, per darla alle nostre bestie, dobbiamo pagarla a caro prezzo, un prezzo che nessuno di noi può permettersi», commenta Mahmud, un pastore del piccolo villaggio di Mufaggra, sulle colline a sud di Hebron.

L'estate 2008 sarà persino più asciutta delle precedenti a causa di un inverno che è stato breve e con scarse piogge. Nei mesi scorsi le precipitazioni nella Cisgiordania settentrionale sono state appena il 64% della media stagionale, in parte meridionale appena il 55% e l'Anp sa che non potrà disporre di almeno 70 milioni di metri cubi d'acqua per soddisfare il fabbisogno di 2,4 milioni di palestinesi. Per questo si è rivolta alla Mekorot chiedendo un aumento della fornitura e la compagnia israeliana non ha respinto la richiesta ma ha precisato che non sarà in grado di soddisfarla proprio a causa della mancanza di quella rete idrica efficiente che l'occupazione israeliana si è rifiutata di costruire nei villaggi palestinesi in più di quarant'anni. «Sappiamo che non hanno abbastanza acqua ma non c'è modo di aumentare le forniture perché la rete non esiste in molte zone», ha spiegato candidamente l'ingegnere della Mekorot, Dani Sofer, aggiungendo che la sua compagnia già fornisce ai palestinesi una quantità di acqua superiore a quella stabilita dagli accordi di Oslo (1993).

Quelli senza acqua hanno ben poche possibilità di dissetarsi. Chi ha un reddito adeguato - pochissimi - compra l'acqua potabile a costi superiore anche tre volte a quelli normali. Gli altri si arrangiano e qualcuno utilizza persino acqua contaminata. Il numero di queste persone, ha messo in guardia l'agenzia Unrwa (Onu) sta aumentando con il passare delle settimane. A Burin, ad esempio, prendono l'acqua anche da fonti impure, esponendosi a frequenti malattie virali. «Non abbiamo scelta, la facciamo bollire ma evidentemente non basta, ci dispiace per i nostri bambini ma questa è l'acqua che abbiamo a disposizione e dobbiamo accontentarci», spiega Abu Abed Saade, uno degli abitanti.

Gli esperti si affannano a spiegare che il problema è più ampio e più grave. Se da un lato, dicono, Israele non può continuare con la sua politica discriminatoria, dall'altro tutte le parti coinvolte devono muoversi, e in fretta, per cercare soluzione sul lungo periodo. Altrimenti non ci sarà più acqua per nessuno. Ma anche in questo caso il più forte fa la parte del leone. Israele, con risorse adeguate, pianifica la costruzione di un numero crescente di impianti di desalinizzazione mentre l'Anp non sa come muoversi, è paralizzata dall'impreparazione e dall'impotenza. L'unico accesso palestinese al mare è a Gaza ma non ci sono i fondi la desalinizzazione, molto costosa, ed in ogni caso portare acqua da lì alla Cisgiordania, passando per il territorio israeliano, è una possibilità remota.

Nel frattempo gli esperti del centro indipendente Palestinian hidrology group esortano a porre rimedio immediato ai gravi errori di valutazione sul fabbisogno d'acqua inclusi nell'articolo 40 degli accordi di Oslo. «Quell'articolo è un ostacolo ad una soluzione soddisfacente - mette in guardia il centro in un documento - perché non consente di aumentare il consumo palestinese e non prevede la riduzione di quello israeliano. Soprattutto non chiede la fine della colonizzazione della Cisgiordania che assorbe buona parte delle riserve idriche locali».


Il mito di "far fiorire il deserto"... con l'acqua di chi?
Le risorse idriche nei Territori Palestinesi ed in Israele sono scarse e mal distribuite in quanto prevalentemente concentrate al nord.

Nonostante l'articolo 40 degli Accordi di Oslo (Oslo II del 1995) prevedeva un utilizzo EQUO delle risorse idriche tra le due comunità, gli israeliani ne consumano una quantità cinque volte superiore a quella dei palestinesi, 350 mc a testa in un anno contro i 70 mc per i palestinesi. Mentre i coloni israeliani utilizzano l’acqua per riempire piscine e innaffiare prati, il consumo prevalente per i palestinesi è rappresentato dall’agricoltura e la maggioranza della popolazione palestinese è costretta a rifornirsi con la raccolta di acqua piovana in cassoni posti sopra i tetti.
Nel mito sionista, pubblicizzato con lo slogan "far fiorire il deserto", la questione dell'acqua è importante quanto quella del controllo della terra. Così Israele si è appropriato di tutte le risorse idriche ed i palestinesi sono costretti a pagare la propria acqua alla Mekort, azienda idrica israeliana, a prezzi maggiorati rispetto a quelli vigenti per gli israeliani.

I palestinesi denunciano che l'occupazione israeliana ha assunto il controllo totale dell'acqua solo per costringerli ad abbandonare l'agricoltura e diventare mano d'opera sottopagata sul mercato del lavoro israeliano.

Fonte: M. Emiliani, 2007. La terra di chi? Geografia del conflitto arabo-israeliano-palestinese Casa Editrice il Ponte

Dal sito del Centro studi per la pace è possibile scaricare la tesi:
"Le risorse idriche nel diritto internazionale con particolare riferimento alla Palestina"

martedì 15 luglio 2008

Il generale delle cipolle e dell'aglio

di Gideon Levy
Lunedì 14 Luglio 2008 05:25
Haaretz, 13 luglio 2008


Ecco il “prossimo passo” nella guerra contro il terrorismo: la lotta alle parrucchiere. Dopo che Hamas ha conquistato più di metà del popolo palestinese, in buona parte a causa delle politiche israeliane, dopo che abbiamo cercato di combatterlo con le armi e l'assedio, la distruzione e gli omicidî, gli arresti di massa e le espulsioni, l'esercito israeliano e i servizi di sicurezza dello Shin Bet hanno inventato qualcosa di nuovo: un attacco ai centri commerciali, alle panetterie, alle scuole e agli orfanotrofi - prima a Hebron, ora a Nablus. L'esercito sta chiudendo saloni di bellezza, negozi di abbigliamento, ambulatori, persino una fattoria per produrre il latte: tutto con il pretesto che sono connesse a Hamas, o che l'affitto che pagano arriva ad un'organizzazione terroristica.

Queste foto bizzarre di un ordine di chiusura emanato dal generale di comando, appiccicato alla finestra di un negozio di cosmetici o di un centro fisioterapico, di un ordine di confisca attaccato a un forno per la pita (pane arabo piatto), mostrano che l'occupazione israeliana è impazzita. Alcuni mesi fa ho visitato gli enti di beneficienza ed i centri commerciali che l'IDF ha cominciato a chiudere, a Hebron; ho visto scene tanto assurde da far diventare furiosi. Una scuola moderna, progettata per 1.200 allievi, chiusa per ordine del generale di comando, e una biblioteca per giovani, sul punto di chiudere.

Così l'occupazione dimostra una volta di più che non vi è punto, nella vita dei palestinesi, che non può raggiungere, e che non ha limiti: un esercito che chiude una scuola, una biblioteca, un panificio ed un collegio; soldati che fanno incursione in una stazione televisiva commerciale autorizzata, confiscandone l'attrezzatura e minacciando di chiuderla, come è avvenuto di recente nell'emittente TV Afaq, a Nablus.

In Israele non si è levata alcuna voce di protesta, naturalmente, ne' contro la chiusura della scuola, ne' contro quella della stazione televisiva. Secondo il filo di pensiero israeliano, se chiudiamo un panificio che fa dolci per gli orfani, si indebolirà il potere di Hamas; se gettiamo dal collegio sulla strada centinaia di bambini bisognosi, questi ed i loro parenti entreranno in sintonia con Israele; se chiudiamo un affollato centro commerciale, avventori e proprietari irati inizieranno a sostenere Fatah.

È da molto tempo che non si è vista l'occupazione israeliana in una luce così ridicola e crudele come in queste operazioni di chiusura e di confisca ordinate dal generale del comando centrale Gadi Shamni, il generale delle cipolle e dell'aglio, a giudicare dai prodotti confiscati dai suoi soldati dai magazzini alimentari di Hebron. Illegali, certo immorali, ma cionondimeno miopi, queste operazioni trasmettono un messaggio forte e chiaro: l'occupazione ha perduto tutti i freni morali ed ogni straccio di giudizio. Quanto è meschino un esercito che svuota magazzini di alimenti e di vestiario per i poveri, quanto è ridicolo che il generale di comando firmi ordini di chiudere saloni di pettinatrici, quanto è patetico un raid militare in panetterie, e quanto è crudele un esercito che chiude ambulatori per ogni pretesto!

Hamas è entrato nel vuoto creato in Cisgiordania e a Gaza. Come ogni movimento religioso, è germogliato nel terreno della sofferenza e della miseria. Ora arriva Israele e dice: “Peggioriamo ancora la miseria e la sofferenza”. Perché? Per combattere Hamas. Nulla di più assurdo. Decine di migliaia di bimbi poveri, in Cisgiordania, non hanno alcuno a cui rivolgersi, a parte gli enti di beneficienza islamici che Israele sospetta essere legati a Hamas, benché molti fossero stati istituiti molto prima che l'organizzazione nascesse. Israele ha smesso di provvedere all'assistenza della popolazione occupata, nonostante i suoi obblighi in base alla legge internazionale, e pure l'Autorità Palestinese non mostra alcun particolare interesse per le necessità sociali ed economiche. Fatah ha sempre destinato più risorse ai campi militari, alle pistole ed alle auto ufficiali che agli orfanotrofi, ai letti d'ospedale e alle macchine per la dialisi.

Questo è il vuoto che il Movimento Islamico sta colmando, offrendo un livello imponente di servizi. L'orfanotrofio che ho visitato a Hebron è uno dei più belli, e meglio curati, che io abbia visto. Ci vuole una certa qual crudeltà a minacciarne la chiusura, una certa qual audacia a sostenere che far questo sarà utile alla guerra contro il terrorismo, e una certa qual stupidità a ritenere che una misura di questo genere sarà d'aiuto. La chiusura di depositi e centri commerciali assicurerà solo un altro colpo all'economia palestinese, che persino ora si dibatte per reggere in condizioni di quarantena. Possibile che Israele non abbia imparato alcunché dal fallimento dell'assedio a Gaza?

Chiunque visiti gli enti di beneficienza vedrebbe che non tutto il denaro che vi affluisce è destinato all'acquisto di esplosivi e di cinture per attentatori suicidi. Non si può simultaneamente imprigionare i residenti in Cisgiordania, proibire loro di guadagnarsi da vivere e non offrire loro alcuna assistenza sociale, colpendo intanto coloro che tentano di fornirla, quali che siano le motivazioni. Se Israele vuole combattere le associazioni caritatevoli, deve quanto meno offrire servizi alternativi. Alle spalle di chi combattiamo il terrorismo? Delle vedove? Degli orfani? È vergognoso.
(traduzione di Paola Canarutto)

Clandestino e apolide dopo 20 anni di prigione in Italia

Ibrahim Abdellatif Fatayer arrestato e condannato dai tribunali italiani a 25 anni di carcere per il sequesto dell'Achille Lauro, ha riacquistato la libertà. Dopo aver scontato la pena in carcere è stato poi rinchiuso nel cpt di Ponte Galeria ...se fino a ieri la sua bollatura si fermava a "terrorista", oggi è arricchita anche da quella di "clandestino"..

Ibrahim è uscito dal carcere nel 2005, dopo 20 anni di reclusione, momento dal quale ha tentato di rifarsi una vita in Italia, trascorrendo i suoi tre anni di libertà vigilata a Perugia, facendosi aiutare dalla Caritas e dandosi da fare. Il 9 aprile 2008 recandosi per l'ordinaria firma in questura, ha trovato l'ennesima sorpresa: nonostante nello stesso mese di aprile la magistratura abbia dichiarato Ibrahim un soggetto non più "socialmente pericoloso", la prefettura di Perugia ha decretato la sua espulsione, ritenendolo pericoloso e per di più clandestino.

Ibrahim è stato spedito nel cpt di Ponte Galeria, nell'attesa necessaria per capire in quale paese mandarlo (Libano? Stati Uniti?!), dove avrebbe dovuto rimanere 60 giorni, che sono diventati 120 in seguito all'espletazione da parte dei suoi avvocati della richiesta di asilo politico all'Italia.
Oggi Ibrahim Abdellatif Fatayer si trova nella condizione di non desiderato in Italia, con in tasca un ordine di allontanamento e la notifica del diniego dell'asilo politico, e di apolide, essendo il suo paese sotto occupazione da parte dello Stato d'Israele. Il ricorso fatto dagli avvocati gli concede altri 15 giorni di tempo per rimanere nei confini nazionali, poi si procederà con l'esplulsione, nonostante al momento si presenti come ineseguibile.

Ibrahim è nato in un campo profughi di Beirut, in quello di Tell El Zaatar, nel 1965 da una famiglia palestinese esplulsa dalla propria casa nel 1948, sotto la minaccia armata delle forze sioniste. E' cresciuto in Libano, come uno dei tanti bambini senza identità che hanno riempito i campi profughi di uno Stato libanese che li ha perennemente discriminati, tollerandoli ma lasciandoli nel loro oblio. Il Libano "non conosce" Ibrahim, non gli ha mai rilasciato la cittadinanza. L'Italia conosce benissimo Ibrahim ma se ne vuole liberare, dato che dopo 23 anni lo considera ancora un "clandestino".
tratto da:

venerdì 4 luglio 2008

Photostory: The month in pictures, June 2008
Una selezione di 20 immagini del mese di giugno 2008 di abusi, di vita, di protesta, di solidarietà


Slideshow, The Electronic Intifada, 2 July 2008
http://electronicintifada.net/v2/article9661.shtml

Allarme idrico in Cisgiordania, a causa della siccità e delle discriminazioni israeliane

Naoki Tomasini *
L'estate è appena iniziata e minaccia di essere rovente. Nei territori palestinesi ci si prepara come sempre a razionare l'acqua, ma quest'anno la crisi idrica sarà peggiore. Lo anuncia l'ultimo studio del centro di informazione israelo palestinese B'Tselem, secondo cui, quest'anno i palestinesi riceveranno almeno 40 mila metri cubi di acqua in meno rispetto al 2007. Una causa del fenomeno è ceramente la siccità, ma gravi responsabilità pesano anche sul governo israeliano, la sua autorità territoriale e la compagnia che gestisce gli acquedotti, colpevoli sencondo B'Tselem di discriminazioni nella concessione di permessi e nella distribuzione dell'acqua.

Gli abitanti delle colonie all'interno dei Territori, infatti, ricevono quantità di acqua tre volte e mezzo superiori delle quote riservate ai palestinesi, ai quali viene sistematicamente rifiutato il permesso di scavare nuovi pozzi. Israele, spiega il rapporto di B'Tselem, ha il totale controllo delle risorse destinate a entrambi i popoli, e anche il divieto di scavare nuovi pozzi è stato imposto da un ordinanza militare. Israele preleva acqua dal corso del Giordano e la pompa in Cisgiordania, verso i coloni e verso l'Autorità Palestinese. I primi, che sono circa 275 mila, ricevono 44 milioni di metri cubi di acqua, almeno 5milioni più di quanti ne ricevano i palestinesi, che in Cisgiordania sono almeno 2milioni e 300 mila. Secondo i dati di B'Tselem anche le risorse acquifere montane sono monopolizzate da Israele, che consede ai palestinesi di usarne solo il 20 percento. Combinando questi dati con la scarisità di precipitazioni degli ultimi mesi, si ricava la conclusione: quest'anno i palestinesi riceveranno tra i 40 e i 70 milioni di metri cubi di acqua in meno rispetto alle loro necessità. Poco importa se già adesso nei Territori il consumo di acqua pro-capite è di soli 66 litri al giorno, due terzi della quota minima fissata dall'Organizzazione Mondiale per la Sanità, Oms.

Anche all'interno dei Territori ci sono differenze: se nelle città principali la situazione rimane accettabile, nei villaggi le cifre calano ancora. Stando al rapporto, i palestinesi dei villaggi consumano solo un terzo dell'acqua di cui avrebbero bisogno secondo l'Oms. Ci sono diverse centinaia di villaggi che non sono nemmeno connessi con l'acquedotto e dipendono dalle capacità di mobilità delle autocisterne: i palestinesi senza acquedotto sono 227mila, mentre altri 190 mila sono quelli che vivono in villaggi con infreastrutture idriche ridotte all'osso. In questi ultimi l'acqua arriva, ma solo per poche ore al giorno e spesso si interrompe per lunghi periodi. Non si tratta di problemi tecnici, semplicemente l'acqua è poca e la compagnia che gestisce l'acquedotto, l'israeliana Mekorot, decide in modo discriminatorio di tagliare le forniture ai villaggi palestinesi per non far mancare acqua alle colonie e alle loro coltivazioni. La compagnia respinge però le accuse di B'Tselem, sostenendo di avere fornito nel 2007 “il 30 percento in più di quanto stabilito con gli accordi di Oslo”. Le quote, sostiene la compagnia, non sono cambiate e, accusa, nelle zone di Betlemme e Hebron i palestinesi rubano consistenti quantità di acqua dalle tubature dirette alle colonie. Secondo le norme internazionali, ricorda B'Tselem, Israele è una forza di occupazione e, in quanto tale, ha il dovere di garantire il funzionamento delle infrastrutture idriche e acqua potabile per tutti.
* peacereporter (MS)

mercoledì 2 luglio 2008

«Ormai siamo uno stato d'apartheid»

da Il Manifesto dell'1 luglio 2008

L'EDITORE DI HA'ARETZ
«La Legge sulla cittadinanza rende Israele uno stato d'apartheid». Parola di Amos Schocken, editore di «Ha'aretz», che ha commentato così, dalle colonne del suo quotidiano, la decisione del governo Olmert che la scorsa settimana ha prolungato, per l'ottava volta, l'«emendamento temporaneo» alla Legge sulla cittadinanza, entrato in vigore come «misura anti-terrorismo» nel 2003, durante le giornate più sanguinose della cosiddetta Seconda intifada palestinese. Il provvedimento impedisce di ottenere la residenza (e quindi la cittadinanza) israeliana ai palestinesi dei Territori occupati che sposino palestinesi già cittadini d'Israele. Nessuna limitazione di questo tipo è invece prevista per gli ebrei israeliani e questo ha indotto diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani a presentare ricorsi alla Corte suprema, perché la legge sarebbe discriminatoria nei confronti degli arabi. «Le barriere legali atte a prevenire una pesante discriminazione contro i cittadini arabi d'Israele e colpire i loro diritti civili sono state rimosse», prosegue Schocken, secondo il quale l'accusa «che ci sono segnali che Israele si stia trasformando in uno stato d'apartheid è molto diffusa nel mondo occidentale». Inoltre, continua l'editore del giornale progressista, «per definire Israele uno stato d'apartheid non c'è bisogno di identificare le caratteristiche dell'apartheid sudafricano nelle discriminazioni dei diritti civili in Israele», perché «l'emendamento alla Legge sulla cittadinanza rappresenta esattamente quel tipo di pratica che porta all'uso di tale termine ed è meglio che non proviamo a evadere la realtà: la sua esistenza nei codici giuridici trasforma Israele in uno stato d'apartheid».


Immagine di Amer Shomali http://www.ramallahunderground.com/

Boicotta Israele: http://www.palestinalibera.it/boicott/index_boic.htm

martedì 1 luglio 2008

La pax israeliana come ulteriore strumento per dividere i palestinesi ?


di Mila Pernice *
Nella Striscia di Gaza, strangolata dall’embargo, era naturale che la notizia della tregua o, più letteralmente dall’arabo Tahadea, della “calma” con Israele, fosse salutata con speranza dalla popolazione. La speranza che Israele ponesse fine agli attacchi militari come quello che, poche ore prima dell’entrata in vigore della calma, ha ucciso l’ennesimo palestinese a Johr Al-Dik, a sud di Gaza City nel centro della Striscia. La speranza che con la riapertura dei valichi di confine potesse giungere insieme alle scorte di cibo e medicinali, un po’ di respiro.

La calma tra Hamas e Israele, mediata dall’Egitto, è entrata in vigore alle 6 locali del 19 giugno, e prevedeva proprio la cessazione di tutte le azioni militari, la riapertura dei valichi, la rimozione dell’embargo sulla Striscia. Un embargo deciso dopo che Hamas ha assunto il controllo della Striscia un anno fa.
Ma così come Israele ha sempre giustificato le uccisioni di militanti della resistenza e di civili palestinesi come reazione al lancio dei missili Qassam sulla città di Sderot, sulle stesse basi ha giustificato le oltre 15 violazioni a questa tregua con Hamas. Da quando è entrato in vigore l’accordo, l’aviazione israeliana ha sorvolato continuamente le città della Striscia seminando il panico, le navi della marina militare hanno sparato contro i pescatori al largo delle coste, i corazzati hanno sparato contro i contadini nei campi. Questa la situazione. Ma a chi fa comodo la tregua?
Gli Stati Uniti non hanno accolto con favore l’intesa con Hamas perché essa indebolirà Abu Mazen in Cisgiordania. In effetti la sua Anp, impantanata da anni nel tentativo di giungere ad un accordo di pace attraverso i negoziati, subirà negativamente le conseguenze dell’accordo di tregua mentre intanto in Cisgiordania prosegue l’avanzata delle colonie israeliane.
Dal Manifesto del 19 giugno scorso Michele Giorgio cita le parole dell’analista politico ed ex-ministro palestinese Ghassan Khatib, che ha sottolineato come l'accordo di tregua rientri pienamente nella «strategia israeliana» di questi ultimi anni: «Israele su Gaza è flessibile perché non ha interessi in quel territorio, al contrario della Cisgiordania dove invece i suoi appetiti territoriali sono ben noti. E forse medita anche di favorire la nascita di una entità di Hamas nella Striscia in modo da limitare potere ed autorità dell'Anp in Cisgiordania. […]La politica di Olmert ha confermato quello che Hamas dice da tempo, a cominciare dalla constatazione che solo l'uso della forza (il lancio dei razzi, ndr) spinge Israele a trovare compromessi mentre il negoziato non porta ad alcun risultato concreto».
E anche Gideon Levy dalle pagine di Haaretz scriveva qualche giorno fa: “Il rifiuto di estendere il cessate il fuoco alla Cisgiordania mostra anche, ancora una volta, che Israele comprende soltanto il linguaggio della forza: si accorderà per una tregua in Cisgiordania solo quando anche da là verranno lanciati i Qassam. Tutto questo che messaggio manda ai Palestinesi? Volete la pace in Cisgiordania? Per favore, lanciate i Qassam anche su Kfar Sava. Dunque questo è qualcosa di molto più profondo di un semplice cessate il fuoco. Riguarda l'immagine di Israele. La risposta negativa israeliana al cessate il fuoco ancora una volta solleva un grave sospetto: può darsi che Israele in realtà non voglia la pace?”.
Israele non vuole la pace. Nell’ultima settimana la pax israeliana a Gaza ha ucciso 3 palestinesi e ne ha feriti 18, tra cui 5 bambini e 2 anziani. E intanto in Cisgiordania l’esercito di occupazione eseguiva 36 incursioni militari, sequestrava 48 cittadini, tra cui 14 minori, demoliva 5 abitazioni (dati del Palestinian Centre for Human Rights).

Le conquiste che otterrà con il ricorso alla diplomazia potranno forse spingere Hamas ad assurgere al rango di interlocutore credibile, e potranno anche spingere il partito islamico della resistenza a non tenere più conto dei lenti passi verso una vera unità nazionale contro l’occupante, o ad alzare la posta per il raggiungimento di una piattaforma comune con Al Fatah, allargando ancora di più la frattura interna alla politica palestinese. Probabilmente porterà a questo la tregua, quando però, nella da sempre asimmetrica situazione, il terrorismo militare israeliano fermerà le sue armi, e a Gaza si potrà davvero parlare di tregua.
* Forum Palestina
Immagine di Amer Shomali http://www.ramallahunderground.com/
blogmasters g.40, gino pino, Ter