“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

domenica 20 luglio 2008

Apartheid dell'acqua - Betselem: stesso liquido, prezzi diversi

di Michele Giorgio, Gerusalemme
il Manifesto, 19 luglio 2008

Piscine piene per i coloni, centinaia di migliaia di palestinesi senza accesso alla rete idrica. Il controllo delle sorgenti da parte di Israele, il Muro e gli accordi di Oslo hanno creato una discriminazione inaccettabile

«Non ci mancava nulla, avevamo tutto: la terra da coltivare, gli alberi, l'acqua», dice Abdel Latif Khaled, volgendo lentamente lo sguardo verso la campagna di Jayyus, nel nord della Cisgiordania occupata. «Ora - aggiunge a voce bassa - c'è rimasto poco o niente. Gli israeliani ci hanno tolto buona parte della terra e quando hanno completato il muro (in questa zona) ci hanno tagliato fuori dai nostri pozzi. L'acqua per irrigare i nostri campi un tempo era abbondante, adesso dobbiamo comprarla». Jayyus ha sete, come tanti villaggi palestinesi, ma può dirsi paradossalmente «fortunato».

«L'acqua per l'agricoltura quest'anno riusciremo ad averla grazie al pozzo di Azun ma sappiamo che non potrà durare a lungo, ancora due-tre anni e le terre che ci rimangono diventeranno deserti se Israele non cambierà la sua politica», avverte Abdel Latif. In altre aree della Cisgiordania, in particolare a sud di Hebron, la situazione è disperata e da qualche settimana Tayyush, un'organizzazione pacifista arabo-ebraica, esorta i suoi attivisti ad acquistare acqua potabile e a distribuirla in quelle zone alle famiglie palestinesi.

Un problema che non hanno gli abitanti delle vicine colonie israeliane. Loro non solo hanno acqua sufficiente da bere, ma possono permettersi anche un tuffo in piscina nelle ore più calde del giorno. Dopo 41 anni di occupazione militare oltre 150 villaggi (220mila abitanti) della Cisgiordania non sono collegati alla rete idrica mentre un insediamento israeliano, non appena viene completato, riceve immediatamente elettricità e acqua.

E così il problema dell'emergenza idrica nei Territori occupati si ripropone ad ogni estate e ogni autunno. Ma anno dopo anno, quelli che soffrono sempre di più sono i palestinesi, perché non hanno alcun controllo su gran parte delle loro riserve di acqua che, gestiste dall'israeliana Mekorot, vengono dirottate verso lo Stato ebraico e lasciate solo in minima parte in Cisgiordania. A Gaza la crisi è spaventosa, i coloni non ci sono più da tre anni, ma le riserve riescono ormai a coprire in minima parte il fabbisogno della popolazione e la differenza non è colmata dall'acqua che arriva dal sistema idrico israeliano. A lanciare l'allarme, l'ennesimo senza alcun risultato, è stato all'inizio di luglio il centro israeliano per i diritti umani Betselem. «La cronica scarsità d'acqua (nei Territori occupati palestinesi) è il risultato in buona parte della politica discriminatoria che Israele attua nella distribuzione delle risorse in Cisgiordania e dei limiti che pone all'Autorità nazionale palestinese nell'aprire nuovi pozzi», ha denunciato in un rapporto presentato nei giorni scorsi (www.btselem.org/english/water/2008070_acute_water_shortage_in_the_west_bank.asp.). «Il consumo medio per persona in Israele è 3,5 volte superiore a quello dei palestinesi», ha aggiunto Betselem, precisando che l'accesso all'acqua senza discriminazioni è sancito dalla legge internazionale come un diritto umano fondamentale. Un palestinese in media ha a disposizione 66 litri di acqua al giorno ma durante l'estate - ha accertato Betselem - la Mekorot taglia ulteriormente le forniture per garantire un flusso costante di acqua nelle colonie. Così i 66 litri diventano, in non pochi casi, 22. Ma la compagnia pratica anche tariffe «discrezionali»: un israeliano paga un metro cubo di acqua per uso domestico circa un dollaro e per uso agricolo 40 centesimi di dollaro, mentre i palestinesi pagano un dollaro e mezzo al metro cubo, senza differenza tra acqua potabile o per l'agricoltura. «Per noi l'acqua è un miraggio, è di fronte a noi abbondante, nelle colonie israeliane, che circondano il nostro villaggio ma per averla, per darla alle nostre bestie, dobbiamo pagarla a caro prezzo, un prezzo che nessuno di noi può permettersi», commenta Mahmud, un pastore del piccolo villaggio di Mufaggra, sulle colline a sud di Hebron.

L'estate 2008 sarà persino più asciutta delle precedenti a causa di un inverno che è stato breve e con scarse piogge. Nei mesi scorsi le precipitazioni nella Cisgiordania settentrionale sono state appena il 64% della media stagionale, in parte meridionale appena il 55% e l'Anp sa che non potrà disporre di almeno 70 milioni di metri cubi d'acqua per soddisfare il fabbisogno di 2,4 milioni di palestinesi. Per questo si è rivolta alla Mekorot chiedendo un aumento della fornitura e la compagnia israeliana non ha respinto la richiesta ma ha precisato che non sarà in grado di soddisfarla proprio a causa della mancanza di quella rete idrica efficiente che l'occupazione israeliana si è rifiutata di costruire nei villaggi palestinesi in più di quarant'anni. «Sappiamo che non hanno abbastanza acqua ma non c'è modo di aumentare le forniture perché la rete non esiste in molte zone», ha spiegato candidamente l'ingegnere della Mekorot, Dani Sofer, aggiungendo che la sua compagnia già fornisce ai palestinesi una quantità di acqua superiore a quella stabilita dagli accordi di Oslo (1993).

Quelli senza acqua hanno ben poche possibilità di dissetarsi. Chi ha un reddito adeguato - pochissimi - compra l'acqua potabile a costi superiore anche tre volte a quelli normali. Gli altri si arrangiano e qualcuno utilizza persino acqua contaminata. Il numero di queste persone, ha messo in guardia l'agenzia Unrwa (Onu) sta aumentando con il passare delle settimane. A Burin, ad esempio, prendono l'acqua anche da fonti impure, esponendosi a frequenti malattie virali. «Non abbiamo scelta, la facciamo bollire ma evidentemente non basta, ci dispiace per i nostri bambini ma questa è l'acqua che abbiamo a disposizione e dobbiamo accontentarci», spiega Abu Abed Saade, uno degli abitanti.

Gli esperti si affannano a spiegare che il problema è più ampio e più grave. Se da un lato, dicono, Israele non può continuare con la sua politica discriminatoria, dall'altro tutte le parti coinvolte devono muoversi, e in fretta, per cercare soluzione sul lungo periodo. Altrimenti non ci sarà più acqua per nessuno. Ma anche in questo caso il più forte fa la parte del leone. Israele, con risorse adeguate, pianifica la costruzione di un numero crescente di impianti di desalinizzazione mentre l'Anp non sa come muoversi, è paralizzata dall'impreparazione e dall'impotenza. L'unico accesso palestinese al mare è a Gaza ma non ci sono i fondi la desalinizzazione, molto costosa, ed in ogni caso portare acqua da lì alla Cisgiordania, passando per il territorio israeliano, è una possibilità remota.

Nel frattempo gli esperti del centro indipendente Palestinian hidrology group esortano a porre rimedio immediato ai gravi errori di valutazione sul fabbisogno d'acqua inclusi nell'articolo 40 degli accordi di Oslo. «Quell'articolo è un ostacolo ad una soluzione soddisfacente - mette in guardia il centro in un documento - perché non consente di aumentare il consumo palestinese e non prevede la riduzione di quello israeliano. Soprattutto non chiede la fine della colonizzazione della Cisgiordania che assorbe buona parte delle riserve idriche locali».


Il mito di "far fiorire il deserto"... con l'acqua di chi?
Le risorse idriche nei Territori Palestinesi ed in Israele sono scarse e mal distribuite in quanto prevalentemente concentrate al nord.

Nonostante l'articolo 40 degli Accordi di Oslo (Oslo II del 1995) prevedeva un utilizzo EQUO delle risorse idriche tra le due comunità, gli israeliani ne consumano una quantità cinque volte superiore a quella dei palestinesi, 350 mc a testa in un anno contro i 70 mc per i palestinesi. Mentre i coloni israeliani utilizzano l’acqua per riempire piscine e innaffiare prati, il consumo prevalente per i palestinesi è rappresentato dall’agricoltura e la maggioranza della popolazione palestinese è costretta a rifornirsi con la raccolta di acqua piovana in cassoni posti sopra i tetti.
Nel mito sionista, pubblicizzato con lo slogan "far fiorire il deserto", la questione dell'acqua è importante quanto quella del controllo della terra. Così Israele si è appropriato di tutte le risorse idriche ed i palestinesi sono costretti a pagare la propria acqua alla Mekort, azienda idrica israeliana, a prezzi maggiorati rispetto a quelli vigenti per gli israeliani.

I palestinesi denunciano che l'occupazione israeliana ha assunto il controllo totale dell'acqua solo per costringerli ad abbandonare l'agricoltura e diventare mano d'opera sottopagata sul mercato del lavoro israeliano.

Fonte: M. Emiliani, 2007. La terra di chi? Geografia del conflitto arabo-israeliano-palestinese Casa Editrice il Ponte

Dal sito del Centro studi per la pace è possibile scaricare la tesi:
"Le risorse idriche nel diritto internazionale con particolare riferimento alla Palestina"

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