“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

venerdì 22 maggio 2009

La Regione Puglia non si renda complice dei padroni israeliani dell'acqua palestinesi

UN APPELLO DEL COMITATO DI SOLIDARIETA' CON IL POPOLO PALESTINESE IN TERRA DI BARI

Al Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola

Ai componenti della Giunta Regionale

Bari, 14 maggio 2009

Oggetto: Convegno “H2Obiettivo 2000” organizzato da Federutility.


Il convegno “H2Obiettivo 2000” organizzato da Federutility con la collaborazione dell´Acquedotto Pugliese SpA, in programma il 28 e 29 maggio prossimi presso Villa Romanazzi Carducci, promuove
una logica di privatizzazione dei servizi pubblici e dell’acqua, il bene pubblico per eccellenza, in continuità con la politica che ha animato il Forum Mondiale sull´acqua di Istanbul, secondo il quale l’acqua deve essere considerata un bisogno - e, dunque, un bene economico commercializzabile da cui trarre profitto – e non un diritto umano inalienabile.

Il convegno riceve contributi, fra gli altri, dalla Veolia Eau, prima multinazionale del settore idrico a livello mondiale, in Italia dal 1884 e oggi presente attraverso diverse società su tutto il territorio nazionale fra cui Acqualatina S.p.A., che dall’inizio della sua attività ha aumentato le tariffe fino al 300% (non “giustificate” neanche da un miglioramento del servizio) interrompendo il servizio a coloro i quali non si potevano permettere di pagare. Del resto, Silvano Morandi, Amministratore Delegato di Acqualatina, in un’intervista rilasciata al TG3 lo scorso marzo, ha sostenuto “se il cittadino non vuole avere il servizio idrico da parte di Acqualatina non deve far altro che dare disdetta e approvvigionarsi in modo differente con un pozzo e con una fossa imhoff”. La Veolia, secondo Amnesty International, si è anche resa responsabile (quando ancora si “chiamava” Vivendi) di una serie di violazioni dei diritti umani in molti Paesi asiatici e sud americani.

Allo stesso Convegno prenderanno parte, inoltre, esponenti del Ministero degli Esteri Israeliano e dell´Autorità delle acque di Israele, cioè i rappresentanti di uno Stato che pratica l´occupazione militare, la segregazione e il massacro nei confronti del Popolo Palestinese, e che si appropria con la forza delle armi delle risorse idriche degli Stati confinanti, nonché di quelle della popolazione palestinese.


La Regione Puglia non può in alcuna maniera legittimare queste politiche.


Chiediamo, dunque, alla Giunta Regionale di ritirare il Patrocinio concesso a questa iniziativa, e al Presidente della Regione Nichi Vendola e all´Assessore alle Opere Pubbliche Onofrio Introna di non prendere parte all’iniziativa come previsto dal programma ufficiale del convegno (www.federutility.it).

Perché si scrive acqua ma si legge diritto alla vita e alla democrazia.

Primi firmatari:
Comitato di Bari Contratto Mondiale sull’Acqua
Comitato di solidarietà con il Popolo Palestinese in terra di Bari

Per adesioni all´appello:
acquabenecomune28maggio@live.it

Comitato Palestina Bologna aderisce all'appello:

La Puglia, naturale ponte nelle terre del Mediterraneo, dovrebbe essere promotrice di scambi di popoli, lingue, prodotti, cultura e pace nelle terre di conflitto e non farsi portavoce di chi occupa, abusa e strupra risorse altrui.

vedi anche nostro post:
http://comitatopalestinabologna.blogspot.com/2008/07/apartheid-dellacqua-betselem-stesso.html

giovedì 21 maggio 2009

La deriva di Israele

Noi della rete Ebrei Contro l’Occupazione denunciamo la deriva illiberale e razzista dello Stato di Israele, che molto preoccupa chi abbia a cuore giustizia, libertà e pace. Dopo la strage compiuta a Gaza dall’esercito israeliano, sotto la guida del governo del partito Kadima presieduto da Olmert, la deriva militaresca, razzista ed illiberale di Israele è proseguita con il nuovo governo della coalizione di destra, presieduta da Netanyahu. I propositi decisamente razzisti sono ora apertamente dichiarati, soprattutto dal ministro degli affari esteri, il signor Lieberman, e sembrano diffusi largamente tra i giovani delle scuole medie superiori, quelli che si apprestano ad entrare nell’esercito. Due fatti particolarmente gravi:

1) la persecuzione dell’associazione pacifista New Profile, di cui alcuni membri sono stati fermati e perquisiti ed i loro computers sequestrati. Dopo liberati, sono stati diffidati dal comunicare tra loro e con altri.

2) la preannunziata legge che proibisce il racconto e la commemorazione della Nakba ( la Catastrofe), la cacciata di oltre 700mila palestinesi dalle loro case e dalle loro terre avvenuta nel 1948-49, e, a diversa intensità, in tutti gli anni successivi fino ai nostri giorni. Il ricordo della Nakba viene vietato a tutti, Israeliani Arabi (il 20% circa della popolazione) ed Ebrei, l’80% circa. La pena prevista per i contravventori sarà di tre anni di carcere! Si vuole cioè stabilire che la fondazione dello Stato Ebraico, che ha coinciso con la cacciata dei Palestinesi arabi dalle loro case e la completa distruzione di centinaia dei loro villaggi (detta, a buona ragione, El Nakba dai Palestinesi) è una festa per i vincitori, e gli sconfitti e chi difende i loro diritti non debbono aver libertà di parola, per non rovinare la festa. Questo atteggiamento inumano, e le leggi atrocemente ingiuste che lo attuano, suscitano la indignazione nostra e di chiunque abbia senso di giustizia, e desiderio di veder la pace finalmente instaurata tra il Mediterraneo ed il Giordano. L’avvento della pace richiederà comunque molto tempo, forse generazioni, dopo tanti decenni di ingiustizie, guerre e persecuzioni: per questo crediamo che sia urgente iniziare il disarmo delle inimicizie e del disprezzo subito: subito dare inizio al cambiamento radicale di atteggiamento umano verso le vittime delle ingiustizie da parte dei persecutori.

Non è certo negando queste elementari verità, e peggio ancora togliendo la libertà di parola a chi le proclama, che Israele potrà esser considerato un Paese civile e tantomeno potrà vivere in pace.


Rete ECO (Ebrei Contro l'Occupazione)

Quale Stato per la Palestina?

di Nadia Hijab

20/05/2009 http://www.medarabnews.com/2009/05/20/quale-stato-per-la-palestina/

Il riavvio del processo di pace sembra essere l’obiettivo dichiarato dell’amministrazione Obama, e molti ritengono che sarà il punto centrale del discorso che il presidente americano terrà a giugno dall’Egitto. Tuttavia – come del resto l’incontro tra Obama e Netanyahu ha appena dimostrato – il percorso per giungere a una soluzione a due Stati sarà irto di ostacoli e di insidie, perfino se esistesse da parte di tutti i protagonisti coinvolti la volontà politica di giungere ad una qualche forma di compromesso.

***

I commentatori arabi ed israeliani hanno entro una certa misura tratteggiato a grandi linee il discorso che Barack Obama terrà in Egitto durante la sua visita di giugno, sebbene egli ancora si stia incontrando con i leader della regione a Washington. Se alcuni sono ottimisti, molti invece nutrono timori.

Gli israeliani temono che Obama voglia spingerli a riconoscere i diritti dei palestinesi e obbligarli a restituire i territori palestinesi e siriani che essi sono stati impegnati a colonizzare fin dal 1967.

Gli arabi temono che Obama annuncerà che i loro leader stanno progettando ulteriori concessioni, sotto forma di un’estesa normalizzazione dei rapporti con Israele, prima di un completo ritiro e di una pace complessiva.

Temono anche che il suo discorso porrà il veto sul diritto al ritorno dei palestinesi, che è sia un diritto individuale che collettivo in base alla legalità internazionale, ed appoggerà Israele in qualità di “Stato ebraico” invece che di Stato di tutti i cittadini che lo compongono.

Su una cosa vi è accordo: l’amministrazione Obama vuole vedere una pace complessiva incentrata su una soluzione a due Stati entro la fine del suo mandato.

Se è davvero così, i palestinesi e gli israeliani si trovano di fronte ad un quesito esistenziale: che tipo di Stato sia gli uni che gli altri potranno ottenere?

Sembra che la “Palestina” che si sta delineando avrà un territorio sottodimensionato con una sovradimensionata forza di sicurezza interna. Le dimensioni del territorio dipenderanno da quanto la leadership palestinese riuscirà a restringere la definizione israeliana dei principali blocchi di insediamenti (illegali) che vuole conservare, i cui confini si estendono ben al di là delle costruzioni esistenti.

Le dimensioni della popolazione dipenderanno dall’eventualità che i leader palestinesi continuino o meno ad appoggiare il diritto al ritorno dei palestinesi all’interno di quello che attualmente è Israele, e da quanti profughi ed esiliati essi riporteranno all’interno del nascente Stato palestinese.

Una questione di importanza cruciale sarà quale grado di sovranità riuscirà ad ottenere il futuro Stato palestinese. Esso avrà il pieno controllo sui suoi confini? Recentemente, ad esempio, Israele ha impedito all’inviato di Mahmoud Abbas di recarsi in Sudafrica per presenziare all’insediamento del nuovo presidente del paese. Ha anche introdotto una legge che rende ancora più difficile ai palestinesi della Cisgiordania entrare a Gerusalemme.

E se il nuovo Stato palestinese controllerà i propri confini, sarà costretto ad accettare il monitoraggio israeliano dietro le quinte di tutti i viaggiatori – un approccio inizialmente adottato a Gaza prima che Israele sigillasse i suoi confini?

Altre questioni riguardanti la sovranità includono il controllo dei registri della popolazione, delle risorse idriche, e dell’economia – tutti aspetti attualmente controllati da Israele.

In effetti, la realizzazione di uno Stato palestinese sovrano richiederebbe la rottura con gli accordi di Oslo, in cui i negoziatori palestinesi rinunciarono alla maggior parte degli aspetti della sovranità in quello che si supponeva fosse un periodo transitorio.

Siccome molti dei leader che negoziarono gli accordi di Oslo sono ancora al potere, le prospettive non sono promettenti – a meno che o Hamas o la società civile palestinese non bloccheranno uno Stato minimalista spingendo invece per una piena indipendenza.

Tuttavia, mentre Hamas è a favore di una soluzione a due Stati e potrebbe essere disposto ad accettare un compromesso pragmatico, molti leader della società civile palestinese – soprattutto nei sempre più influenti movimenti per il boicottaggio e per il diritto al ritorno – ora credono in una soluzione ad uno Stato, e non sembrano invece disposti ad investire energie nel progetto dei due Stati. A meno che non vi sarà un cambiamento nella strategia, uno Stato incompiuto potrebbe essere un esito prevedibile.

Quanto a Israele, il suo territorio coprirebbe oltre tre quarti del territorio della Palestina mandataria, molto più di quanto previsto dal piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947. Israele avrebbe dei confini definiti per la prima volta nella sua storia – cosa che significherebbe la fine del progetto sionista di riunire gli ebrei del mondo in quella che era una volta la Palestina.

L’insistenza di Israele affinché venga riconosciuto come “Stato ebraico” ha l’obiettivo di mantenere vivo il sogno sionista nell’eventualità di una soluzione a due Stati. Uno Stato ebraico continuerebbe a dare la priorità ai propri cittadini ebrei oltre che a qualunque ebreo, ovunque nel mondo, che volesse la cittadinanza israeliana in base alla legge sul ritorno.

A questo progetto si oppongono ovviamente il milione e 450 mila palestinesi che sono cittadini di Israele, i quali sono tuttora cittadini di seconda classe. Essi godono inoltre dell’appoggio di un numero crescente di ebrei israeliani che credono in uguali diritti per tutti i cittadini di Israele.

Numerose questioni rappresenterebbero una sfida per uno Stato di Israele in pace. Vi sono divergenze fra gli ebrei stessi riguardo alla pretesa secondo cui la nazionalità israeliana equivarrebbe alla nazionalità ebraica. Molti ebrei continuano a considerare il giudaismo come una fede, e non come un’identità nazionale. E molti ebrei che mantengono legami familiari o culturali con Israele non si considerano come israeliani potenziali, ma piuttosto come cittadini del paese in cui vivono. Nel frattempo il dibattito su “chi sia un ebreo” riaffiora ripetutamente in Israele ed all’estero.

Fino a quando Israele poteva puntare il dito contro minacce esterne, era possibile porre queste questioni in secondo piano. Tuttavia, se e quando il processo di pace ora guidato dall’amministrazione Obama si avvicinerà ad un accordo finale, esse diventeranno questioni sempre più spinose e generatrici di divisioni per Israele.

Se Obama otterrà i due Stati, potrebbe scoprire di trovarsi all’inizio, invece che alla fine del percorso.

Nadia Hijab è Senior Fellow presso l’Institute for Palestine Studies, con sede a Washington

Titolo originale:What Kind of State?

Israele, governo e coloni si alleano per “ebraizzare” Gerusalemme

di Andrea Dessi*

Stando ad un recente rapporto pubblicato da un’organizzazione no-profit israeliana che si occupa di questioni pertinenti al futuro di Gerusalemme, governo di Tel Aviv e coloni avrebbero elaborato un piano per lo sviluppo della città che consiste nella “creazione di una sequenza di parchi che circondano la città vecchia” di Gerusalemme e incrementa cosi il processo di “ebraizzazione” dei quartieri arabi della città.

Il movente del piano, secondo quanto riportato dall’organizzazione israeliana Ir Amim, sarebbe quello di incrementare la presenza ebraica nei quartieri che circondano la città vecchia rendendo cosi molto più difficile un’eventuale divisione della città; aspetto chiave per qualsiasi negoziato di pace tra israeliani e palestinesi.

Inoltre, sempre secondo Ir Amim, “per la prima volta [questo rapporto dà] una visuale comprensiva di come il governo [israeliano] e i coloni, lavorando assieme, stiano creando un regno territoriale basato su tradizioni bibliche” a danno della popolazione, per lo più musulmana, che vive in quelle zone.

Il piano, originalmente presentato al governo dal comune di Gerusalemme nel 2005 ma attivato soltanto nel settembre 2007 quando fu assegnato al Jerusalem Development Agency (Jda), prevede la costruzione di nove parchi nazionali, siti e sentieri turistici situati in aree di apparente rilevanza per la religione ebraica che si trovano sulle sponde orientali della città.

Nonostante queste notizie non siano del tutto nuove - per esempio la pianificata costruzione di un parco nella zona del attuale quartiere arabo di al-Bustan (situato a sud della città vecchia) dove sono state segnalate per la demolizione circa 90 unità residenziali - la divulgazione dei dettagli di una presunta alleanza tra governo e coloni renderà molto più difficile la posizione del governo di Tel Aviv che in passato ha sempre negato ogni accusa di coordinamento con le varie organizzazioni private che promuovono la colonizzazione ebraica attraverso il territorio del futuro Stato palestinese.

Con un valore di poco superiore ai 12 milioni di euro all’anno per un periodo di otto anni, i dettagli del piano, che fino ad ora non erano mai stati resi pubblici, risulterebbero nel creare un anello continuo tra i vari parchi, sentieri e siti turistici progettati e le molte colonie già esistenti nei quartieri arabi che si trovano a est delle mura della città vecchia. Il piano mira a “rafforzare lo status di Gerusalemme come capitale di Israele”, si legge il rapporto presentato dal comune della città nel 2005 e citato in un articolo datato 10 maggio del New York Times.

Secondo le dichiarazioni di Danny Seidemann, avvocato e rappresentante dell’organizzazione Ir Amim, citate dal quotidiano inglese Guardian, “questa politica [di ebraizzazione] getta olio sul fuco del conflitto e minaccia di cambiarlo da un conflitto nazionale, che può essere controllato e risolto, in un inutile confronto regionale”. “Queste azioni limiteranno le possibilità di un compromesso territoriale a Gerusalemme soltanto alle zone a nord e a sud della città vecchia”, continua Seidemann, precisando quindi che per quanto riguarda la città vecchia in sé, dove si trovano i principali luoghi di culto per le tre religioni monoteiste, Israele non ha intenzioni di negoziare sulla propria sovranità.

Un “parco giochi biblico” è la maniera in cui gli esponenti di Ir Amim descrivono i vari parchi e le aree turistiche progettate dal piano assegnato dal governo al Jda e che verranno poi date in gestione alle varie organizzazioni di coloni che già operano nel area di Gerusalemme est. Diventa impossibile negare che ci sono “pericolose similitudini tra il programma [del piano] e i progetti dei coloni il cui scopo è di far fallire una futura soluzione politica nel cuore [Gerusalemme] del conflitto”, ha inoltre dichiarato Seidmann al quotidiano israeliano Haaretz.

Le zone in cui sono pianificati i parchi, sentieri e aree turistiche si concentrano infatti in aree dove già da diversi anni sono attive varie organizzazioni coinvolte con la promozione e la costruzione di colonie ebraiche considerate “illegali” dall’intera comunità internazionale. Nell’area residenziale di Silwan, situata a sud-est delle mura della città vecchia di Gerusalemme, dove vivono all’incirca 50mila palestinesi, e che include il quartiere di al-Bustan dove 90 unità residenziali sono a rischio demolizione per far spazio ad un “area verde” antistante all’area archeologica della “Città di Davide”, l’organizzazione coinvolta è conosciuta come El Ad (oppure Ir David). Attiva nel area dal ’91, quando iniziarono ad occupare e costruire nuove abitazioni riservate esclusivamente ad ebrei, El Ad è un’organizzazione privata con un budget miliardario il cui obiettivo è di far risuscitare l’antica città di Davide attraverso l’esplorazione archeologica e la costruzione di musei e aree turistiche che cementano l’identità e la storia ebraica del luogo. Nonostante le numerose accuse rivolte contro l’organizzazione da varie ong, esponenti dell’Onu e anche una serie di archeologi israeliani che rifiutano il modo in cui El Ad usa “l’archeologia a scopi politici”, l’intera struttura turistica, inclusa la dirigenza dei scavi tuttora incorso, è stata data in dotazione dal governo, attraverso il Israeli Antiquities Authority (Iaa), all’organizzazione El Ad. Sarebbero più di 500 i coloni ebrei ad essersi trasferiti nel area sotto gli auspici di El Ad, che tuttora gestisce anche una serie di visite guidate della zona.

A est della città vecchia, zona conosciuta come il Monte degli Ulivi dove si trovano una serie di chiese e il più esteso e antico cimitero ebraico al mondo, si trova un’altra delle aree incluse nel progetto di sviluppo per la città. Qui, dal 2003 Irving Moskowitz, un businessman milionario di New York che da anni si vanta di donare e investire milioni di dollari in Israele per progetti caritatevoli e di beneficenza (e che quindi gli vengono anche scalati dalle tasse dovute negli Usa), ha costruito due moderni palazzi contenenti una sessantina di appartamenti ciascuno riservati esclusivamente ad una clientela ebraica. Attualmente sono in costruzione altre due palazzine con lo stesso numero di appartamenti, mentre, sempre grazie alle sue donazioni, è stata da poco completata una nuova centrale di polizia situata strategicamente nell’area a est del confine municipale di Gerusalemme (zona conosciuta come “E-1”) e l’enorme colonia di Ma’ale Adummim (34mila abitanti). Queste nuove colonie verrebbero, secondo il piano reso noto da Ir Amim, poi collegate tramite una serie di sentieri, parchi e aree turistiche meticolosamente recintate che completerebbero cosi l’anello circondante la città vecchia di Gerusalemme. Il piano prevede quindi che le aree di Silwan (sud-est), il Monte degli Ulivi (est) e Sheikh Jarrah (nord-est), tuttora a maggioranza arabo-palestinese e che servono come vie principali per l’accesso dei musulmani ai luoghi di culto della città vecchia, restino sotto il controllo di Israele. Inoltre, più a est, quest’anello andrebbe poi a connettersi alla colonia di Ma’ale Adummim, che occupa un’area di quasi 50 chilometri quadrati e che attualmente taglia a metà la Cisgiordania; rendendo cosi molto più complicato non solo una divisione di Gerusalemme tra i due popoli, ma anche limitando la fattibilità di uno Stato palestinese contiguo ed indipendente.

Alle critiche sollevate da Ir Amim si aggiungono infatti anche quelle del gruppo Peace Now, che in una dichiarazione riportata dal quotidiano Jerusalem Post il 10 maggio avvertono che “se procede l’attuazione di questo piano si rischia di trasformare la questione di Gerusalemme, e più specificamente di quell’aree che circondano la città vecchia, in una situazione irrisolvibile e che possibilmente impedirà di arrivare ad una soluzione di due Stati”. Pesanti critiche sono arrivate anche dal segretario-generale dell’Onu Ban Ki-Moon, che l’11 maggio, al termine di una seduta del Consiglio di sicurezza sul conflitto israelo-palestinese alla quale Israele si è rifiutata di prendere parte, ha dichiarato che i palestinesi di Gerusalemme e i territori occupati “continuano a subire le azioni unilaterali e inaccettabili” di Israele. “E’ tempo che Israele cambi in maniera fondamentale la sua politica a questo riguardo” ha inoltre aggiunto Ban Ki-Moon nel corso di una conferenza stampa riportata dalla Reuters il giorno stesso.

Nonostante la reazione del governo israeliano alla pubblicazione del rapporto di Ir Amim siano state a base di smentite e rassicurazioni che “lo sviluppo di Gerusalemme gioverà tutta la popolazione della città rispettandone le diverse fedi e comunità”, come ha dichiarato un esponente del ufficio del primo ministro al giornale Jerusalem Post, le maggiori organizzazioni non governative non appaiono soddisfatte delle intenzioni del governo che comunque non dimostra di voler cambiare rotta. Il ministro degli interni israeliano, Eli Yishai, citato dal New York Times a riguardo delle azioni pianificate dal governo in uno dei quartieri di Gerusalemme est, ha infatti dichiarato che “intende proseguire a questo riguardo con piena forza e determinazione”. “Questa terra è sotto la nostra sovranità – ha aggiunto - la colonizzazione qui è nostro diritto”.

* per Osservatorio Iraq
[18 maggio 2009]
(fonte: Jerusalem Post, Haaretz, Ir Amim, New York Times, Reuters, the Guardian)

Cisgiordania, una discarica a poco prezzo per le compagnie israeliane

di Carlo M. Miele
Osservatorio Iraq, 18 maggio 2009
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=7623

Da tempo la Cisgiordania è diventata una economica discarica a cielo aperto a disposizione di Israele. Nei Territori palestinesi occupati (Tpo) vengono sversati i rifiuti delle colonie e quelli delle compagnie israeliane, che in questo modo possono sfuggire alle restrittive leggi dello Stato ebraico.

La denuncia arriva da Jamil Mtoor, vicedirettore dell’Autorità palestinese per l’ambiente (Pea).

"Israele – ha dichiarato Mtoor alla Inter Press Service (Ips) – sta scaricando i suoi rifiuti, compresi quelli tossici e pericolosi, in Cisgiordania da anni, in quanto si tratta di un’alternativa più economica e facile rispetto al trattarli in maniera appropriata in Israele nei siti designati per i rifiuti pericolosi".

Uno dei centri più colpiti da questa pratica è Shuqbah, un villaggio di 5mila abitanti, al confine tra lo Stato ebraico e i Territori palestinesi occupati. Qui le compagni israeliane utilizzano i terreni di proprietà di un mediatore palestinese per gettare quantità enormi di spazzatura al prezzo conveniente di 30 dollari a tonnellata.

A subirne le conseguenze è in primo luogo la popolazione locale, esposta alle esalazioni provenienti dalla combustione dei rifiuti tossici; già ora, sottolinea la Pea, sono numerosi i casi di asma e malattie collegate.

I casi analoghi e documentati non si contano. In passato - denuncia Mtoor - le autorità israeliane hanno bruciato le carcasse di migliaia di polli affetti dal virus dell’influenza aviaria, nei pressi di Nablus, nel nord della Cisgiordania, oppure abbandonato centinaia di barili di insetticida nei pressi di Hebron, nel sud.

Nella maggior parte dei casi, lo Stato ebraico si è avvalso della complicità di proprietari palestinesi, retribuiti con cifre irrisorie. L’Autorità palestinese (Anp) ha avviato procedimenti legali contro i responsabili, ma per il momento non è riuscita ad arrestare il fenomeno.

Spesso, anzi, i mediatori palestinesi sono protetti dagli israeliani. “Per perseguirli - dice Mtoor - dobbiamo ottenere i necessari permessi israeliani per entrare nelle aree B e C (le zone della Cisgiordania controllate totalmente o in parte da Tel Aviv, ndr), e questi ci vengono spesso rifiutati oppure ci vuole molto tempo per averli”.

A ciò va aggiunta la difficoltà di monitorare il territorio per evitare gli sversamenti illegali, che spesso avvengono di notte.

Le denuncie della Pea trovano conferma in un rapporto dell’Applied Research Institute di Gerusalemme (Arij) secondo cui tra gli sversamenti illegali in Cisgiordania vanno annoverati anche "le acque di scarico degli insediamenti”, che comprendono anche pesticidi, amianto, batterie, cemento e alluminio.

In precedenza, diversi anni fa, l’ong ambientalista Friends of the Earth Middle East (Foeme), che comprende attivisti israeliani, palestinesi e giordani, sottolineò i pericoli derivanti dalle infiltrazioni nelle falde acquifere cisgiordane di sostanze tossiche - tra cui cloruro e arsenico - e metalli pesanti, come il cadmio e il mercurio.

“Quei rischi – ha dichiarato all’Ips il portavoce di Foeme Miri Epstein – restano attuali ancora oggi”.

(fonte: Inter Press Service)

venerdì 15 maggio 2009

PALESTINA 61 ANNI DI INGIUSTIZIA

Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. (Che Guevara)

L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia, ovunque.( King, Martin Luther)

Si piange quando si grida all'ingiustizia. (Italo Svevo)

Ogni anno il popolo palestinese commemora al-Nakba, la catastrofe.
Al Nakba è l’appellativo che i Palestinesi danno al 15 maggio 1948, data in cui lo stato d'Israele si è impossessato delle terre, delle case e delle vite del popolo palestinese.
Al Nakba è stato il giorno in cui il popolo pale-stinese si è trasformato in una nazione di rifu-giati. 750.000 Palestinesi sono stati espulsi dalle loro case e sono stati costretti a vivere nei campi profughi. Molti di quelli che non sono riusciti a scappare sono stati uccisi.
Nel 1948 più del 60 per cento della popolazione palestinese è stato espulso.
Più di 530 villaggi palestinesi sono stati evacuati e distrutti completamente.
Finora Israele ha impedito il ritorno di circa sette milioni di rifugiati palestinesi e continua ancora oggi a cercare di espellere i palestinesi dalla loro terra. Queste operazioni assumono di volta in volta forme e nomi diversi, attualmente vengono chiamati “trasferimenti”.
I rifugiati palestinesi sono fuggiti in diversi posti; alcuni sono fuggiti nei paesi limitrofi intorno alla Palestina, altri sono fuggiti all'interno della Palestina ed hanno vissuto nei campi profughi, costruiti appositamente per loro dalle agenzie ONU, e altri si sono dispersi in vari paesi del mondo.
Tutti questi rifugiati hanno un sogno in comune: ritornare nelle loro case di origine, e questo sogno è rinnovato ogni anno attraverso la commemorazione della Nakba.
Il caso dei profughi palestinesi è oggi il più considerevole come numero di persone coinvolte ed anche quello che si protrae di più nel tempo, rispetto agli altri casi di rifugiati nel mondo.
Più di 7.2 milioni di persone, che rappresentano i tre quarti del popolo palestinese e quasi un terzo della popolazione mondiale dei rifugiati, rimangono senza una soluzione definitiva della loro condizione. Più della metà dei profughi palestinesi non godono dei diritti di base, quali sicurezza fisica, libertà di movimento ed accesso all’impiego.
La maggior parte dei rifugiati palestinesi vive nel raggio di 100 miglia dai confini d’Israele, ospite negli stati arabi confinanti.
Più della metà dei rifugiati vive in Giordania, circa un quarto nella striscia di Gaza e nel West Bank, e circa il 15 per cento risiede in proporzioni uguali in Siria e nel Libano, mentre la popolazione restante dei rifugiati risiede all'interno d'Israele (persone spostate internamente), nel golfo arabo, in Europa e negli Stati Uniti.
Circa un terzo dei profughi costretti all’esodo nel 1948 vive nei campi profughi situati nel West Bank, nella striscia di Gaza, in Giordania, in Libano ed in Siria.
Prima del 1948 i Palestinesi possedevano più del 90% della terra in Palestina, oggi ne possiedono o hanno accesso solo al 10%.
Secondo il diritto internazionale(risoluzione ONU n.194 dell'11 dicembre 1948) i rifugiati hanno il diritto di ritornare nelle loro case di origine, avere la restituzione della proprietà e la compensazione per le perdite e i danni subiti.
Lo stato d’Israele impedisce ai profughi palestinesi di esercitare il diritto al ritorno nelle proprie case, che è un diritto fondamentale sancito dal diritto umanitario internazionale

Vi racconterò una storia
una storia che visse
nei sogni delle persone..

Una storia che sorge
dal mondo delle tende..
un mondo fatto di fame,
decorato dalle notti scure.

Nel mio paese, e il mio paese
è una manciata di rifugiati..
ogni ventina possiedono …. una libbra di farina..
promesse di conforto …. doni e pacchetti.

È la storia di una compagine straziante
dipinta dagli anni di sofferenza
con lacerazioni e agonia..
con sacrificio e aspirazioni ..
* * *

È la storia di un popolo
che fu raggirato
che fu gettato nei labirinti degli anni
ma li sfidò e rimase in piedi

per informazioni su Nakba:
http://www.alnakba.org/


per informazioni suicampi profughi, il sito ufficiale dell'UNWRA:
http://www.un.org/unrwa/


NAKBA - L’ESPULSIONE DEI PALESTINESI DALLA LORO TERRA. Fondazione Internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli, 1988. Edizioni Ripostes. (Volume disponibile presso la Biblioteca Amilcar Cabral – Bologna).

...Lieberman vuole condannare a 3 anni di carcere i palestinesi che celebrano la nakba come giornata di lutto...
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1085588.html

martedì 12 maggio 2009

Chi fermerà gli ebrei dell'AIPAC prima che sia troppo tardi?

http://www.actionforpeace.org/index.php/Articoli/Chi-fermera-gli-ebrei-dell-AIPAC-prima-che-sia-troppo-tardi.html
Medea Benjamin*


Mentre le guardie di sicurezza del Washington Convention Center mi afferravano durante la conferenza AIPAC per aver aperto uno striscione con la scritta "E che ne è di Gaza?", mi si straziava il cuore. Non erano tanto le guardie che stavano tirando le mie braccia da dietro trascinandomi - assieme a altre 5 donne di CODEPINK - fuori della sala. Loro stavano facendo il loro lavoro.
Ciò che mi addolorava era l'odio che sentivo del personale dell'AIPAC il quale stracciò lo striscione e coprì la mia bocca con le mani mentre cercavo di gridare: "Che ne è di Gaza? Che ne sarà dei bambini?" "Chiudi quel caz-- di bocca. Chiudi quel caz-- di bocca", mi urlava uno dello staff, rosso in faccia e sudando mentre correva accanto a me. "Questo non è il luogo per dire quella merda. Levati dalle palle".
Ciò che mi strazia il cuore è pensare ai bambini traumatizzati che ho incontrato nel mio recente viaggio a Gaza, e il modo in cui la loro sofferenza viene negata dai 6000 partecipanti alla conferenza AIPAC, che vivono in una realtà tutta loro, in cui Israele è la vittima e chiunque lo critica è anti-semita, amante dei terroristi, oppure, come nel mio caso, una self-hating Jew, un'ebrea che odia se stessa.
Sono stata colpita dal discorso di apertura del direttore esecutivo dell'AIPAC, Howard Kohr, nel quale ricordava una grande campagna internazionale contro le politiche di Israele in atto attualmente. Parlava di 30.000 persone in marcia in Spagna, sindacalisti italiani che chiedono il boicottaggio dei prodotti israeliani, il Consiglio dei diritti umani dell'ONU che ha approvato 26 risoluzioni di condanna di Israele, la settimana anti-apartheid che punta a creare una campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.
Questo movimento globale, avvertiva Kohr, proviene dal Medio Oriente, risuona nelle sale delle Nazioni Unite e delle capitali d'Europa, è espresso nelle riunioni di organizzazioni internazionali per la pace, e si sta diffondendo in tutti gli Stati Uniti, dai mezzi di comunicazione a incontri locali, dai campus alle piazze. "Questa campagna non si limita più ai deliri della estrema sinistra o destra", ha lamentato, "ma sempre di più sta entrando nel mainstream americano."
Ma Kohr non ha spiegato perché vi è stata una tale esplosione di attività in questo movimento, anche tra le comunità ebraiche americane. Egli non dice ai partecipanti che il mondo è stato sconvolto e indignato dal devastante attacco israeliano di 22 giorni su Gaza, che ha provocato oltre 1300 morti, soprattutto donne e bambini. Egli non ha menzionato l'uccisione di civili in fuga dalle loro case, l'uso del fosforo bianco, il bombardamento di case, scuole, moschee, ospedali, edifici delle Nazioni Unite e fabbriche. Egli non ha parlato della continuo, crudele assedio della Striscia di Gaza che impedisce che gli aiuti umanitari raggiungano 1,5 milioni di persone e che rende impossibile la ricostruzione.
Non ci sono stati seminari alla conferenza da gruppi per i diritti umani come Amnesty International, che chiede l'immediata e completa sospensione delle forniture di armi a Israele. Invece, uno dopo l'altro, i membri del Congresso statunitensi, desiderosi di ingraziarsi l'AIPAC, si sono impegnati per il continuo sostegno finanziario degli Stati Uniti ad Israele. Il senatore Kerry, nonostante sia stato uno dei pochissimi legislatori a visitare Gaza, non ha detto una parola sulla massiccia distruzione a cui ha assistito. Invece, si è impegnato in qualità di Presidente della Commissione affari esteri del Senato a fare di tutto per assicurare che i 30 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele fossero "consegnati tutti." "L'America continuerà con gli aiuti militari, e Israele non mancherà di mantenere la sua forza militare", ha insistito. Invece di chiedere colloqui con il governo democraticamente eletto di Hamas, Kerry ha affermato: "Hamas ha già vinto una campagna elettorale, non possiamo consentire loro di vincerne un'altra." Ha concluso il suo intervento gridando più volte in ebraico, "Am Yisrael Chai - l'Israele vive!"
Anche il Vice Presidente Biden, il quale almeno ha detto all'AIPAC che Israele deve bloccare la costruzione di nuovi insediamenti, non ha detto una parola sulla crisi umanitaria in corso causata dall'invasione da parte di Israele e l'assedio di Gaza. Nessun funzionario statunitense, e ce ne sono stati centinaia nel corso della conferenza, ha osato fare eco all'appello delle Nazioni Unite e della comunità mondiale per porre fine all'assedio di Gaza.
Eric Cantor, repubblicano della Camera, è stato uno dei più emozionanti oratori, raffigurante Israele come vittima di un movimento globale malefico determinato a cancellare Israele e tutti gli ebrei. Evocando "le vittime, nude e tremanti, che sono state spinte nelle camere a gas", si è domandato quando sarebbe diventato troppo tardi per proteggere Israele. "Quando sarà troppo tardi?", ha ripetuto più volte.
Io mi sono chiesta la stessa cosa. Quando sarà troppo tardi per fermare la distruzione di Israele da se stesso? Quando sarà troppo tardi per dire ai partecipanti alla conferenza AIPAC che la violenza e l'odio non sono la risposta? Quando sarà troppo tardi per aprire il cuore indurito del mio popolo, una volta vittima di un terribile olocausto, per rendersi conto che occupando la Palestina siamo diventati il male che deploriamo? Quando sarà troppo tardi per ridare un senso al termine ebraico "Tikkun olam" lavorando veramente per guarire il mondo? Quando sarà troppo tardi per gli ebrei del mondo per piangere per i bambini di Gaza, riconoscendo che anche loro sono figli di Dio?
Non ho avuto l'opportunità di porre le mie domande ai partecipanti della conferenza AIPAC. Sulla mia bocca è stata messa la museruola di mani sudate del personale pieno di odio che insisteva con "chiudi quella caz-- di bocca". Nonostante i massicci fondi e influenza dell'AIPAC, sono sicura che un numero sempre maggiore di membri della comunità ebraica farà un passo avanti e si rifiuterà di rimanere in silenzio. Spero solo che non sia troppo tardi.

Medea Benjamin
(medea@globalexchange.org) è co-fondatrice di Global Exchange e CODEPINK: Women for Peace

L'AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) e' la piu' potente lobby filo israeliana degli Stati Uniti d'America

(Traduzione di Stephanie Westbrook - l'originale in inglese è stato pubblicato sul sito Common Dreams)

Israele sa che la pace proprio non paga

Amira Hass
l'articolo in inglese
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1084656.html

11 maggio 2009


I governi che si sono succeduti dal 1993 dovevano certo essere consapevoli dei loro atti, quando non avevano alcuna fretta di fare la pace con i palestinesi. Come rappresentanti della società israeliana, avevano capito che questa apporterebbe un notevole danno agli interessi nazionali.

Danni economici
L'industria della sicurezza è un settore importante dell'export: armi, munizioni e modifiche migliorative, testati quotidianamente a Gaza e in Cisgiordania. Il processo di Oslo - negoziati che non avrebbero mai dovuto finire - ha permesso a Israele di scrollarsi di dosso lo status di potenza occupante (con l'obbligo di assistere la popolazione occupata) e di trattare i territori palestinesi come entità indipendenti. Vale a dire, di impiegare le armi e le munizioni in quantità che non avrebbe altrimenti usato contro i palestinesi dopo il 1967. Proteggere le colonie richiede un costante sviluppo di dispositivi di sicurezza, di sorveglianza e di deterrenza, quali barriere, blocchi stradali, impianti elettronici di controllo, telecamere e robot. Nel mondo sviluppato, questi dispositivi sono all'avanguardia; servono alle banche, alle aziende ed ai quartieri lussuosi accanto alle baraccopoli ed alle enclave etniche, dove vanno represse le rivolte.
La creatività collettiva in ambito securitario è resa fertile da uno stato di frizione costante fra la maggior parte degli israeliani ed una popolazione definita come ostile. Una condizione di conflitto armato a bassa intensità, e qualche volta ad alta, avvicina vari temperamenti israeliani: i rambo, i maghi del computer, le persone con grandi abilità manuali, gli inventori. Se ci fosse la pace, le occasioni di incontrarsi si ridurrebbe molto.

Danni professionali
Mantenere l'occupazione ed uno stato di non-pace dà lavoro a centinaia di migliaia di israeliani. Nel settore della sicurezza lavorano circa in 70mila. Ogni anno, terminano il servizio militare in decine di migliaia, con competenze specifiche oppure un doppio lavoro appetibile. Per migliaia di persone la carriera principale si connette alla sicurezza: militari di professione, operatori dello Shin Bet, consulenti esteri, mercenari, trafficanti di armi. La pace mette quindi in pericolo la carriera ed il futuro professionale di uno strato importante e prestigioso di israeliani, strato che ha un'importante influenza sul governo.

Danni alla qualità di vita
Un accordo di pace richiederebbe un'equa distribuzione di risorse idriche in tutto il Paese (dal Giordano al mare), indipendentemente dalla desalinizzazione dell'acqua di mare e da tecniche di risparmio idrico. Anche adesso è difficile per gli israeliani abituarsi a risparmiare l' acqua per la siccità. Non è difficile immaginare quanto traumatico sarebbe un abbattimento del consumo idrico, per rendere equa la distribuzione.

Danni al welfare
Come gli ultimi 30 anni hanno dimostrato, gli insediamenti prosperano mentre si riduce il welfare. Offrono alla gente comune quello che il salario non permetterebbe nell'Israele riconosciuta entro i confini del 4 giugno 1967: terreni a basso costo, case grandi, sovvenzioni, sussidi, vasti spazi aperti, panorama, una rete migliore di comunicazioni stradali ed un sistema scolastico di qualità. Finanche per quegli ebrei israeliani che non si sono trasferiti lì, le colonie illuminano l'orizzonte, come possibilità di migliorare lo status sociale ed economico. Questa opzione è molto più realistica delle vaghe promesse di miglioramenti in tempo di pace, situazione questa ignota.

La pace ridurrà anche, se non cancellerà completamente, il pretesto della sicurezza per discriminare i palestinesi israeliani - nella distribuzione della terra, nelle risorse per lo sviluppo, nell'istruzione, all'impiego nella sanità e nei diritti civili (quali il matrimonio e la cittadinanza). Chi si è abituato al privilegio in un sistema basato sulla discriminazione etnica vede l'abolirla come una minaccia al proprio benessere.

Tradotto da Paola Canarutto e Carlo Tagliacozzo

http://zeitun.ning.com/profiles/blogs/israele-sa-che-la-pace-proprio

PER IL BOICOTTAGGIO DELLA RICERCA DI GUERRA

di Mila Pernice *

Anche per il 2009 il sito del Ministero degli Esteri italiano [1] pubblica il bando di gara (con scadenza 31 maggio 2009) nell’ambito dell’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele, la cui storia è da sempre intrecciata con l’aspetto militare e colonialista. Per la parte italiana l’Ufficio II della Direzione Generale per i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente del Ministero degli Affari Esteri, e per la parte israeliana l’Office of the Chief Scientist (OCS) del Ministero dell’Industria e Commercio, chiedono “la presentazione di progetti di ricerca congiunti italo israeliani nelle aree di ricerca contemplate nell’art. 2 dell’Accordo”, come quelle, tra le altre, della medicina e dell’ organizzazione ospedaliera, delle biotecnologie, dello sfruttamento delle risorse naturali, delle applicazioni dell’informatica nella formazione e nella ricerca scientifica, dello spazio, delle tecnologie dell’informazione, comunicazioni di dati e software e “di qualunque altro settore di reciproco interesse”.


Fra i requisiti fondamentali del bando, leggiamo che “il partner israeliano dovrà essere obbligatoriamente un soggetto industriale (impresa) che può essere assistito tecnologicamente e scientificamente da un soggetto non industriale (università, centro di ricerca etc…)”, mentre “il partner italiano potrà essere sia un’impresa che un soggetto non industriale (università, centro di ricerca etc…)”, salvo poi sottolineare che “le università e i centri di ricerca dovranno però obbligatoriamente essere affiancati da un’impresa”.


Sulla base dell’Accordo, stipulato a Bologna il 13 giugno del 2000, sono stati avviati negli ultimi anni in Italia una serie di progetti congiunti tra alcune Regioni (come il Lazio e l’Emilia Romagna) e il Centro Industriale Israeliano per la Ricerca e lo sviluppo (MATIMOP) dipendente dal Ministero dell’Economia israeliano: progetti come quello presentato a Roma il 26 Ottobre 2007 sulle “tecnologie fotoniche” con la collaborazione tecnica di Selex Communications, Lynx Photonic Network e dell'Università di Tor Vergata, o come quello, presentato a Bologna il 30 maggio 2007, che aveva l’obiettivo di promuovere le collaborazioni fra Emilia – Romagna e Israele nei settori della meccanica avanzata e della meccatronica, ovvero della scienza che studia il modo di “far interagire tre discipline, quali la meccanica, l'elettronica, e l'informatica al fine di creare un know-how nell'ambito della modellistica, simulazione e prototipazione dei sistemi di controllo” [2] . Progetti come quello siglato tra il Matimop e la Provincia di Milano nel 2006 nell’attività di ricerca e sviluppo tecnologico nelle seguenti aree: biotecnologie, bioinformatica, sperimentazioni cliniche, apparecchiature mediche, micro e nanotecnologie”, le stesse indicate da Shimon Peres come il necessario sviluppo dei sistemi d’arma israeliani.


Il sito della Campagna di Boicottaggio www.bdsmovement.net ci ricorda che nel quadro delle collaborazioni internazionali, Israele gode di una straordinaria serie di accordi bilaterali e multilaterali e che, ad esempio, nel 2005 la partecipazione di imprese israeliane a progetti internazionali è cresciuta del 150% rispetto all’anno precedente passando a 1 miliardo e mezzo di dollari a partire dai 600 milioni del 2004. La Campagna BDS ci lascia intendere che l’economia israeliana dipende dalle relazioni con il mondo, tanto da svelare una sorta di vulnerabilità. In questo quadro si inserisce l’importanza dello strumento del boicottaggio contro l’economia di guerra israeliana.


Nel maggio del 2007 il premio Nobel americano per la fisica Steven Weinberg decise di boicottare una conferenza all'Imperial College di Londra, denunciando la volontà del sindacato inglese UCU di boicottare le università israeliane. La notizia fece scalpore e portò l'attenzione dei media inglesi sulla questione dell’occupazione della Palestina, nel quarantesimo anniversario della Guerra dei Sei giorni, dando una risonanza inaspettata al dibattito. Dopo un paio di settimane, il sindacato votò a favore del boicottaggio, che consiste in particolare nel rifiuto di collaborare con riviste accademiche israeliane e di stipulare contratti di collaborazione con istituzioni israeliane [3] .


Nel gennaio di quest’anno in Italia il movimento di protesta degli studenti e dei ricercatori dell’Onda, al grido di “noi la guerra non la facciamo” ha interrotto una lezione tenuta dal direttore del dipartimento di Fisica de La Sapienza di Roma, Giancarlo Ruocco, per chiedere una posizione ufficiale sul massacro in corso nella Striscia di Gaza e «l'immediata interruzione delle collaborazioni con le istituzioni di ricerca israeliane». «Condanno la guerra ma non fermeremo la collaborazione che abbiamo con alcune università israeliane», ha risposto il prof. Ruocco, che ha aggiunto: «non possiamo sapere quale futuro possano avere queste applicazioni, se andranno in una direzione positiva o verso comportamenti disdicevoli come quelli bellici» [4] .


Ma leggiamo che “i forti investimenti economici nel comparto della Difesa dello Stato di Israele – che possiede anche un arsenale atomico e un programma nucleare - hanno permesso lo sviluppo e l'acquisizione di sistemi d'arma ed equipaggiamenti militari tra i più moderni ed efficienti esistenti a livello internazionale […]. Le forze armate israeliane posseggono armi e sistemi informatici tra i più avanzati, alcuni sono di produzione americana, altri di sola acquisizione e soggetti a modifiche (come il fucile d’assalto M4, gli aerei F16 Falcon, F15 Eagle e l'elicottero Apache). Israele ha anche sviluppato le sue industrie d’armi indipendenti. L'IDF (Forze di Difesa Israeliane) consta anche di dipartimenti di ricerca e sviluppo interni qualitativamente elevati e ha acquisito molte tecnologie da industrie di sicurezza israeliane. Molti di questi sviluppi sono stati testati sul campo [5] ”. Il campo… Come quello della Striscia di Gaza, bersagliato dalle bombe al fosforo e dalle DIME (Dense Inert Metal explosive), che ha visto nel solo mese di gennaio più di 1.300 vittime palestinesi e più di 5.000 feriti?


Vale forse la pena avere più di qualche dubbio sul futuro dei progetti congiunti tra le nostre università e le istituzioni israeliane, considerare seriamente l’ipotesi del boicottaggio accademico, e ricordare l’invito del già docente di antropologia all'Università Ben Gurion del Negev, oggi coordinatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi, Jeff Halper, che ha detto: “c’è un’altra superpotenza che può essere mobilitata: la società civile internazionale, tutti noi nelle Ong, nelle organizzazioni politiche, nei sindacati, nelle Università, nelle chiese, ecc. È questa la sfida che ci attende ora. Abbiamo svolto un ruolo chiave nella lotta per accordi sui diritti umani, per la formulazione della legge internazionale e la creazione di istituzioni come il Tribunale penale internazionale. Abbiamo svolto un ruolo di primo piano nell’abbattimento dell’apartheid. Adesso dobbiamo mobilitarci per porre fine all’occupazione israeliana [6] ”.

* Forum Palestina

[1] http://www.esteri.it/MAE/IT/BandiGare/2009/20090305_AccordoItaliaIsraele.htm.

[2] Vd. il Dossier “Revocare gli accordi commerciali tra le Regioni italiane e le istituzioni israeliane” http://www.forumpalestina.org/news/2009/Febbraio09/DossierBoicottaggio/DossierBoicottaggioRegioniItaliane.htm

[3] http://www.businessonline.it/1/EconomiaeFinanza/1789/inghilterra-boicotta-istituzioni-israeliane.html

[4] Da Il Manifesto del 16 e 17 gennaio 2009 “L'Onda per il «boicottaggio accademico di Israele», ma i docenti dicono no”, di Stefano Milani.

[5] “Forze di Difesa Israeliane” in Wikipedia.org.

[6] http://it.peacereporter.net/articolo/2879/Intervista+a+Jeff+Halper.

domenica 10 maggio 2009

Lettera aperta a Roberto Saviano che vorrebbe trasferirsi a vivere in Israele

Gentile Roberto,
mi è capitato di leggere su Repubblica che Lei immagina di trasferirsi a vivere in Israele, precisamente a Gerusalemme. Ho avuto, mi creda, una perdita di senso!Ma come, Lei che ha denunciato la militarizzazione del territorio da parte del potere criminale della camorra, decide di trasferirsi nello Stato più militarizzato del mondo?
Certo, mi rendo conto che la ricerca di normalità in una condizione così esposta come la Sua, possa sembrarLe più facilmente garantita in un territorio dove ogni vita è controllata fin dentro l’anima, ma dov’è finito l’afflato etico che l’ha spinta a denunciare con tanta veemenza l’arroganza del potere (camorristico) che decide della vita degli inermi narcotizzando ogni possibile tentativo di riscatto?
Non pensa che questo processo si inneschi in qualunque contesto si realizzi l’organizzazione della vita di una collettività intorno ad un’identità assoluta come testimonia l’origine e lo sviluppo dello Stato di Israele che il governo attuale vuole definire (non a caso!) Stato ebraico?
Ed i palestinesi che prima c’erano ed ancora oggi vivono in quel territorio dovranno subire l’ennesimo furto, “anche” di identità? Quando il suo “caso” è diventato pubblico, ho firmato tutte le petizioni possibili in Suo favore, nella profonda convinzione che nessuna persona o popolo debba subire restrizioni alla propria libertà di denuncia. Da allora Lei è diventato, suo malgrado, un opinion leader ascoltato e rispettato e questa condizione non Le consente disattenzioni o imprecisioni nelle dichiarazioni pubbliche.Non posso credere che Lei non sappia che Gerusalemme è (nella sua parte orientale) territorio occupato dallo Stato di Israele dal 1967 nonostante lo stesso lo rivendichi come propria capitale(così come l’Olp nel 1988). A nulla sono valse le infinite risoluzioni Onu (242,194 ed altre) se non ad impedire che ciò fosse ratificato dal diritto internazionale tant’è che oggi, capitale dello Stato di Israele risulta essere Tel Aviv. Al momento, questa è l’unica impunità che non è stata concessa ai governi israeliani che si sono succeduti nel tempo.Mi piacerebbe allora che “utilizzasse” questo privilegio per dare voce e diritti alle donne e agli uomini palestinesi che sono ,ormai da 60 anni, espropriati dei diritti più elementari dai governi di quello Stato che Lei tanto ammira.La compassione e la protezione internazionale di cui Lei ha goduto, mi piacerebbe che la restituisse:
Ai 1310 morti di Gaza ( di cui 420 bambini, 112 donne,120 anziani e 15 tra medici e soccorritori) e 5500 feriti dell’ultimo attacco israeliano non a caso chiamato Piombo fuso. E a quelli che moriranno per l’effetto delle armi non convenzionali usate.
Alle 117 prigioniere palestinesi nelle carceri israeliane che non hanno neanche il diritto di visita dei familiari perché non vengono loro rilasciati i permessi per attraversare i 543 check points fissi e 600 volanti che attraversano il territorio palestinese.
Agli oltre 3000 bambini palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. Un ordinanza militare israeliana stabilisce che un bambino palestinese diventa adulto a 16 anni, mentre quello israeliano a 18 (!). Siccome però l’età viene attribuita al momento della sentenza, l’esercito israeliano può arrestare bambini dai 12 anni in su.
Ai resistenti nonviolenti di Bil’in e Nih’lin che da 4 anni, ogni venerdì si recano in corteo davanti alla sezione del Muro (lungo complessivamente 850 mt e alto 8/9 mt) che gli israeliani (illegalmente!!!!) vogliono costruire nei loro villaggi. Una moltitudine composta da tutte le fasce d’età e di sesso, completamente disarmata che rivendica, attraverso slogan, l’integrità del proprio territorio. Per tutta risposta ricevono dai militari protetti da carrarmati e filo spinato, bombe lacrimogene e bombesonore che avvelenano ed assordano, quando non ammazzano come è accaduto all’ultimo caduto, un ragazzo di 29 anni, la settimana scorsa. Ai pacifisti israeliani ( l’unica parte sana di quella società) che rischiano costantemente il carcere e la vita per sostenere i diritti dei palestinesi e dissentire dalla retorica militarista dei loro governi.
Mi fermo qui… ma la lista delle impunità potrebbe proseguire a lungo. Mi creda, Roberto, questa volta penso che non abbia riflettuto a sufficienza nel dichiarare ammirazione per quel triste paese. Se queste mie poche righe non saranno state sufficienti a farLe cambiare idea, mi permetto di suggerirLe un viaggio in Palestina dove troverà riscontro ( e molto di più) di quanto ho appena accennato.Se lo farà, lo leggerò sui media perché non potrà più fare a meno di denunciare pubblicamente. Esattamente come sto facendo io adesso.
Distinti saluti.
Alessandra Valle, Napoli

Ps: le cifre citate sono tratte da rapporti di organizzazioni israeliane (!) per i diritti umani: Betselem, Phisicians for Human Rights, WOFPP

venerdì 1 maggio 2009

Migliaia di tonnellate di aiuti per Gaza lasciati marcire fuori dal valico di Rafah

http://www.forumpalestina.org/news/2009/Aprile09/25-04-09FotoVergogna.htm

S.O.S. GAZA CONTINUA: UNA T.A.C. PER L’OSPEDALE AL AWDA

dal Forumpalestina (www.forumpalestina.org)

L’embargo internazionale e le ripetute aggressioni israeliane contro la Striscia di Gaza hanno portato al collasso le già provate infrastrutture di uno dei territori più densamente popolati del pianeta. Le strutture sanitarie ed ospedaliere non sono state risparmiate né dall’embargo, né dai bombardamenti. Nel corso dell’operazione “Piombo fuso”, i criminali di guerra sionisti hanno ripetutamente colpito ospedali ed ambulanze, ed ora il perdurare dell’embargo non fa che aggravare una situazione già drammatica.

All’inizio di marzo, una delegazione del Forum Palestina è riuscita a rompere l’embargo ed a consegnare alla Direzione dell’ospedale Al-Awda di Gaza i 21.300 euro raccolti da una sottoscrizione popolare nelle settimane precedenti, mentre un’èquipe di medici, psicologi ed infermieri prendeva servizio presso lo stesso ospedale, dove ha lavorato insieme ai colleghi palestinesi per settimane. Si è trattato di un’iniziativa importantissima, di cui tutti gli amici della resistenza palestinese sono legittimamente orgogliosi, ma che non può e non deve restare un episodio.

Insieme alla Direzione dell’ospedale Al Awda, abbiamo deciso di rilanciare la campagna di sottoscrizione S.O.S. GAZA, finalizzandola ad un obiettivo ambizioso: dotare l’ospedale di una macchina per la Tomografia Assiale Computerizzata (T.A.C.), uno strumento indispensabile per la diagnostica, di cui il milione e mezzo di Palestinesi della Striscia sono sprovvisti, perché la sola macchina esistente è fuori uso ormai da tempo.

In questa campagna, non saremo soli: insieme a noi, coordinati direttamente dall’ospedale Al Awda, collaboreranno associazioni e comitati di solidarietà europei, statunitensi ed arabi, in quella che possiamo definire senza retorica una grande iniziativa di solidarietà internazionalista.

Per questo motivo, rilanciamo a tutte e tutti l’appello a sottoscrivere sul conto corrente postale n. 47209002, intestato a Monti Germano, con la causale S.O.S. Gaza. Il codice IBAN è IT59 C076 0103 2000 0004 7209 002. Lo abbiamo promesso, e le cose che diciamo, di solito le facciamo: torneremo presto a Gaza, e non lo faremo a mani vuote.

lettera del direttore dell'ospedale Al Awda al Forumpalestina:

Al Forum Palestina, Italia

Da: Union of Health Work Committees (UHWC)

Dr. Yosef MOUSA – Direttore Esecutivo

Oggetto: Richiesta per sostegno urgente all’ospedale Al-Awda TAC scan

Prima di tutto, come UHWC ed ospedale Al Awda desideriamo esprimere il nostro apprezzamento e sentito
ringraziamento alla vostra organizzazione ed al popolo italiano, per i loro contributi per alleviare le sofferenze delle persone emarginate e deprivate in Palestina, nei momenti critici come quelli che stiamo attualmente affrontando, specialmente nella Striscia di Gaza. Vogliamo cogliere questa opportunità per esprimere il nostro sentito ringraziamento per tutto il sostegno e la solidarietà forniti dalla vostra organizzazione durante l’ultima visita a Gaza, sia per il livello tecnico del sostegno psicologico dei medici che hanno composto il team, sia per il livello finanziario espresso con la generosa donazione a sostegno del lavoro dell’ospedale Al Awda.
Siamo un’organizzazione di base, non governativa e non profit, che fornisce cure nella Striscia di Gaza, particolarmente nel nord, dove è situato il nostro ospedale. Come risultato di molti fattori, particolarmente per la sua collocazione geografica vicino ai confini israeliani, la zona nord della Striscia di Gaza è altamente vulnerabile in termini di danni ed emergenze. L’UHWC sta tentando di superare il gap fra i servizi forniti alle persone benestanti e quelli forniti ai poveri, portando servizi di qualità ed altamente sofisticati alla portata delle categorie emarginate delle comunità palestinesi, principalmente le donne e i bambini.
Il nostro progetto strategico è di realizzare un centro diagnostico che comprenda tutte le attrezzature essenziali per diagnosticare tutte le patologie, specialmente durante le emergenze, quando il ricovero altrove o all’estero non è possibile. Le attrezzature che ci occorrono sono Fluoroscopio Digitale, Mammografia, Panorama, Ultrasound tridimensionale, Unità di base per raggi X, Ecocardiogramma e Tomografia Assiale Computerizzata (TAC), che è lo strumento di cui abbiamo maggior bisogno che non abbiamo trovato fino ad ora. Il budget necessario per acquistare ed installare la TAC equivale a 450.000 euro ed è al di fuori delle possibilità del nostro bilancio biennale, e per questo abbiamo sottoposto questo progetto ad alcuni donatori. La risposta alla partecipazione al centro diagnostico è superiore alle aspettative, poiché le seguenti organizzazioni hanno stanziato fondi per alcune attrezzature come segue:

1. Il Fondo Arabo per lo Sviluppo sostiene il progetto con 380.000 dollari.
2. Il Fondo OPEC per lo sviluppo internazionale (OFID) ci sostiene con 50.000 dollari.
3. L’Associazione Welfare (ONG palestinese) partecipa con 106.000 dollari.
4. La Giunta dell’Andalusia e la JCCML (organizzazione spagnola) ci sostengono con 146.000 dollari.
5. Solidarietà Internazionale (organizzazione spagnola) ci sostiene con 65.000 dollari.

Le predette donazioni sono sufficienti per acquistare ed installare tutte le attrezzature del centro diagnostico, ad eccezione della TAC, per la quale sono stati donati solo 60.000 euro dalla MPDL (ONG spagnola). Un’iniziativa altamente meritoria è stata lanciata recentemente in Italia dal Forum Palestina per trovare i fondi per la TAC, e questa iniziativa ha bisogno della cooperazione di altre persone ed organizzazioni italiane e di altre comunità europee ed americane.
Vogliamo attrezzare l’ospedale per fornire i servizi alla popolazione bisognosa e vulnerabile del nord della Striscia di Gaza e rispondere alle sue richieste nei casi di necessità e di emergenza; apprezziamo altamente il vostro sostegno. Il vostro contributo nel sostenere questa raccolta di fondi è altamente apprezzato. In definitiva, il vostro sostegno salverà le vite dei Palestinesi nella Striscia di Gaza e li rafforzerà nei confronti delle sfide che stanno attualmente affrontando.
Quindi, sollecitiamo il vostro contributo a sostegno dell’acquisto e dell’installazione della TAC per mettere l’UHWC in grado di servire effettivamente il popolo.
Se vi occorrono ulteriori informazioni, non esitate a contattarci.

Vostro
Dr. Yousef MOUSA
Direttore Esecutivo

versione originale lettera http://www.forumpalestina.org/news/2009/Aprile09/LetteraOspedaleAl-Awda.pdf

Cancellate il nome di mio nonno a Yad Vashem

Jean-Moïse Braitberg

Signor Presidente dello Stato d’Israele,

le scrivo chiedendole d’intervenire presso chi ne ha competenza perché venga tolto dal Memoriale di Yad Vashem, dedicato alla memoria degli ebrei vittime del nazismo, il nome di mio nonno, Moshe Brajtberg, gasato a Treblinka nel 1943, come pure quelli degli altri membri della mia famiglia, deportati e morti in diversi campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale. Le chiedo di accogliere la mia richiesta, signor presidente, perché quello che è accaduto a Gaza e, più in generale, la sorte imposta da sessant’anni al popolo arabo di Palestina squalifica ai miei occhi Israele come centro della memoria del male fatto agli ebrei, e quindi a tutta l’umanità.

Fin dall’infanzia ho vissuto nell’ambiente dei sopravvissuti ai campi della morte. Ho visto i numeri tatuati sulle braccia, ho sentito il racconto delle torture; ho conosciuto lutti indicibili e ho condiviso i loro incubi.

Mi hanno insegnato che questi crimini non devono più accadere; che mai più un uomo, per il fatto di appartenere a un’etnia o a una religione ne disprezzi un altro, faccia strame dei suoi diritti più elementari che sono una vita degna nella sicurezza, l’assenza di ostacoli e la luce, per quanto lontana, di un avvenire di serenità e prosperità.

Ora, signor presidente, io osservo che malgrado molte decine di risoluzioni approvate dalla comunità internazionale, malgrado l’evidenza lampante dell’ingiustizia fatta al popolo palestinese dal 1948, malgrado le speranze nate a Oslo e malgrado il riconoscimento del diritto degli ebrei israeliani a vivere in pace e sicurezza più volte riaffermato dall’Autorità palestinese, le uniche risposte dei governi che si sono succeduti nel suo paese sono state la violenza, il sangue versato, la segregazione, i controlli incessanti, la colonizzazione, le spogliazioni.

Lei mi dirà, signor presidente, che è legittimo, per il suo paese, difendersi contro chi lancia razzi su Israele, o contro i kamikaze che portano via con loro numerose vite israeliane innocenti. A questo io le risponderò che il mio sentimento di umanità non cambia in base alla cittadinanza delle vittime.

Viceversa, signor presidente, lei dirige i destini di un paese che pretende, non solo di rappresentare tutti gli ebrei, ma anche la memoria di coloro che furono vittime del nazismo. È questo che mi riguarda e mi è insopportabile. Conservando nel Memoriale di Yad Vashem, nel cuore dello Stato ebraico, il nome dei miei cari, il suo Stato tiene prigioniera la mia memoria familiare dietro il filo spinato del sionismo per renderlo ostaggio di una sedicente autorità morale che commette ogni giorno l’abominio che è la negazione della giustizia.

Dunque, la prego, tolga il nome di mio nonno dal santuario dedicato alle crudeltà inflitte agli ebrei affinché non giustifichi più quelle inflitte ai palestinesi. Voglia gradire, signor presidente, i sensi della mia rispettosa considerazione.

Jean-Moïse Braitberg (scrittore)

«Le Monde», 28 gennaio 2009

da http://www.ospiteintegrato.org/Sezioni/paesi allegorici/Cancellate il nome di mio nonno.html


Rimuovete il nome di nostra nonna dal muro di Yad Vashem di MICHAEL NEUMANN e OSHA NEUMANN, 16 marzo 2009

Traduzione di Maurizio Bagatin

Al Presidente dello Stato d’Israele e al Direttore del memoriale Yad Vashem

Seguendo l’esempio di Jean-Moise Braitberg, chiediamo che il nome di nostra nonna venga rimosso dal muro di Yad Vashem. Si chiamava Gertrud Neumann. I vostri registri riportano che era nata a Kattowitz il 6 giugno 1875 e che è deceduta a Theresienstadt.

M. Braitberg presenta la sua istanza con ottime ragioni e in base alla sua eloquente, personale testimonianza. Le sue parole sono ispiratrici, ma conferiscono a voi, e a quanti stanno con voi, troppo credito. Io sarò invece molto breve. Vi prego di considerare quanto segue come espressione del mio disgusto e disprezzo per il vostro Stato e per tutto quello che esso rappresenta.

Nostra nonna fu vittima proprio di quell’ideale di superiorità etnica per la cui causa Israele ha versato tanto sangue per così lungo tempo. Io ero tra i molti ebrei che non facevano caso all’adesione a tale ideale, nonostante le sofferenze che esso ha inflitto alla nostra razza. Ci sono volute migliaia di vite palestinesi prima che mi rendessi conto di quanto folli eravamo stati.

La nostra complicità è spregevole. Non credo che il popolo ebraico, nel cui nome avete commesso così tanti crimini con un simile compiacimento oltraggioso, possa sbarazzarsi della vergogna che gettate su di noi. La propaganda nazista, nonostante tutte le sue calunnie, non ha mai disonorato né corrotto gli ebrei; voi ci siete riusciti. Non avete il coraggio di assumere la responsabilità dei vostri atti di sadismo: con un’insolenza mai vista prima, vi siete fatti portavoce di un’intera razza, come se la nostra stessa esistenza fosse un’approvazione alla vostra condotta. Avete macchiato i nostri nomi non solo con i vostri atti, ma con le menzogne, i discorsi evasivi, la compiaciuta arroganza e l’infantile moralismo con cui avete ricamato la nostra storia.

Alla fine darete ai palestinesi un qualche avanzo di Stato. Non pagherete mai per i vostri crimini e continuerete a pavoneggiarvi, a crogiolarvi nelle vostre illusioni di una superiorità morale. Ma da qui ad allora continuerete a uccidere e a uccidere, senza nulla ottenere dalle vostra brutalità da monelli viziati. Nostra nonna ha sofferto abbastanza quando era viva. Smettete di

coinvolgerla da morta in questo orrore.

Michael Neumann


Mi unisco a mio fratello, Michael Neumann, nel richiedere che qualunque riferimento a nostra nonna venga rimosso dal Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto.

Io ci sono stato. I sui edifici, i cortili lastricati e i piazzali si estendono autorevolmente su un paesaggio di molti acri. In esso l’Olocausto appare come un preludio alla creazione dello Stato d’Israele. Cimeli e reperti dei campi di sterminio vi sono preservati come tesori nazionali. Questo tesoro non appartiene a Israele. Potrà essere un tesoro solo se servirà da monito per non permettere più a nessuna nazione di proclamarsi esente dai limiti della moralità e della decenza.

Israele ha distorto l’Olocausto facendone un pretesto per perpetuare altri olocausti. Ha speso il cordoglio del mondo per le vittime dell’Olocausto in un inutile sforzo per mettersi al riparo dalle critiche che le piovono addosso per i massacri e le torture dei palestinesi, e per la brutale occupazione con cui li soffoca. Non desidero che la memoria di mia nonna venga annoverata in questo ignobile progetto.

Sono cresciuto credendo che gli ebrei fossero un gruppo etnico con la missione storica di trascendere l’etnicità in un fronte unico contro il fascismo. Essere ebreo significava essere anti-fascista. Da tempo Israele mi ha svegliato dal mio sonno dogmatico sull’immutabile relazione tra ebrei e fascisti. È stata macchinata una fusione tra l’immagine di torture e criminali di guerra ebrei e quella di vittime emaciate dei campi di concentramento. Trovo che questa commistione sia oscena. Non voglio farne parte. Avete perso il diritto di essere i custodi della memoria di mia nonna. Non desidero che Yad Vashem sia il suo memoriale.

Osha Neumann

Michael Neumann è professore di filosofia in un’università canadese. È autore di What's Left: Radical Politics and the Radical Psyche and The Case Against Israel. Ha inoltre contribuito con il saggio "What is Anti-Semitism" al libro curato da CounterPunch, The Politics of Anti-Semitism. Può essere raggiunto a questo indirizzo: mneumann@live.com

Osha Neumann è un avvocato difensore a Berkeley e autore di Up Against the Wall MotherF**ker: a Memoir of the 60s with Notes for Next Time

Conferenza contro il razzismo dell’ONU. Il boicottaggio occidentale della denuncia del razzismo di Israele

di Pasquale Serrano*

Il 20 aprile scorso, gli ambasciatori europei all’ONU hanno abbandonato indignati la Conferenza Mondiale sul Razzismo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), celebratasi a Ginevra, per protestare per le parole del discorso del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Vediamo cosa ha detto Ahmadinejad:

(Serrano utilizza la versione spagnola dell’intervento, ndt) "Agli stimati presenti voglio precisare la mia posizione. Dalla Seconda Guerra Mondiale, e con il pretesto delle sofferenze del popolo ebraico, e utilizzando in modo non appropriato l’olocausto, essi (gli israeliani) hanno reiterato le loro aggressioni militari contro una nazione intera di palestinesi. Immigrati dall’Europa, dagli USA e da altri paesi del mondo, hanno creato un governo totalmente razzista nella Palestina occupata. Con la scusa della comprensione del razzismo e delle sue conseguenze in Europa, gli israeliani hanno imposto il governo più crudele e razzista ad altre parti del mondo come la Palestina. Le radici dell’attacco degli USA all’Iraq e la loro invasione dell’Afghanistan si trovano nell’arroganza della precedente Amministrazione USA e nella pressione esercitata da poteri privi di controllo nell’espansione della loro influenza nell’interesse del complesso industriale e dei fabbricanti di armi. (A questo punto abbandonano la sala vari diplomatici, tra cui quello spagnolo).

Crediamo nella necessità di un mondo nuovo, con un cambiamento di politiche e comportamenti. I rappresentanti che pretendono di abbandonare la sala sono una minoranza e raccomandiamo loro di aumentare la propria capacità di tolleranza: tutto deve basarsi sul rispetto reciproco e la giustizia."

Già prima dell’inizio della Conferenza, Israele, Stati Uniti, Italia, Australia, Canada, Polonia, Germania, Olanda e Nuova Zelanda si erano rifiutati di partecipare perché sapevano che Israele avrebbe ricevuto dure critiche. L’uscita di altri rappresentanti, in maggioranza europei, durante il discorso del presidente iraniano, ci deve indurre a pensare e a cercare spiegazioni su ciò che a costoro è parso intollerabile, al punto da meritare tale trattamento.

Una delle cose che si sono potute sapere è che il boicottaggio era già stato pianificato. Lo ha riconosciuto l’ambasciatore svedese all’ONU Hans Dahlgren all’agenzia di notizie TT, ripresa dal web del canale televisivo SVT: "il senso (delle parole di Ahmanideyad) era che Israele è un paese razzista. Lo abbiamo ascoltato in inglese e francese, ma siccome egli parla persiano e poiché non esisteva una versione scritta (del discorso) (…) allora avevamo concordato che se avesse detto ciò, avremmo abbandonato la sala."

L’ambasciatore spagnolo all’ONU, Javier Garrigues, è tra i diplomatici che hanno abbandonato la sala. Ha eseguito l’ordine impartito dalla presidenza ceca dell’UE, che aveva previsto questo gesto nei confronti di Ahmanideyad, per poi ritornare a seguire i lavori della conferenza. "Il presidente ha parlato di uno Stato razzista e per questo ce ne siamo andati", ha dichiarato Garrigues. "Questa retorica incendiaria non può essere in alcun modo accettata in una conferenza dell’ONU", ha affermato.

Il fatto curioso è che è passata inosservata una dichiarazione del presidente dell’Assemblea Generale, Miguel D’Escoto, del 24 novembre scorso relativa al tema dal titolo "La questione della Palestina". In essa si parlò di "quanto assomiglino le politiche israeliane nel territorio palestinese all’apartheid, esistito in un’epoca passata in un altro continente" e ha aggiunto quanto segue:

"Io credo che sia importante che noi, all’ONU, impieghiamo questo termine. Non dobbiamo avere paura di chiamare le cose con il loro nome. Dopotutto, sono le Nazioni Unite che hanno elaborato la Convenzione internazionale contro il crimine dell’apartheid, esplicitando al mondo intero che tali pratiche di discriminazione istituzionale devono essere bandite ogniqualvolta siano praticate.

Abbiamo ascoltato oggi un rappresentante della società civile sudafricana. Sappiamo che in tutto il mondo organizzazioni della società civile lavorano per difendere i diritti dei Palestinesi e tentano di proteggere la popolazione palestinese che noi, Nazioni Unite, non siamo riusciti a proteggere.

Più di 20 anni fa noi, le Nazioni Unite, abbiamo raccolto il testimone della società civile quando abbiamo convenuto che le sanzioni erano necessarie per esercitare una pressione non violenta sul Sud Africa affinché ponesse fine alle violazioni che stava commettendo.

Oggi, forse, noi, le Nazioni Unite, dobbiamo prendere in considerazione il fatto di seguire l’esempio di una nuova generazione della società civile che fa appello per una analoga campagna di boicottaggio, di disinvestimento e di sanzioni, allo scopo di fare pressione su Israele perché la faccia finita con le violazioni dei diritti umani."

Se ne sarebbero andati i rappresentanti europei, dopo aver ascoltato tutto ciò?

Potremmo tornare ancora indietro nel tempo. La prima denuncia del razzismo contro i palestinesi fu ascoltata già nella prima Conferenza dell’ONU contro il Razzismo, la Discriminazione Razziale e le Forme Connesse di Intolleranza nel settembre 2001, a Durban (Sudafrica). Lì fu l’allora presidente di Cuba Fidel Castro ad affermare quanto segue:

"Si metta fine a quanto succede di fronte al genocidio del popolo palestinese, che ha luogo davanti agli occhi attoniti del mondo. Si protegga il diritto elementare alla vita dei suoi cittadini, dei suoi giovani e dei suoi bambini. Si rispetti il suo diritto all’indipendenza e alla pace, e non ci sarà nulla da temere dai documenti delle Nazioni Unite.

So bene che, cercando di alleviare la situazione terribile in cui si trovano i loro paesi, molti amici africani e di altre regioni suggeriscono la prudenza necessaria per ottenere qualcosa in questa Conferenza. Li capisco, ma non posso rinunciare alla convinzione sul fatto che quanto più insistentemente si dica la verità, più possibilità ci saranno di essere ascoltati e rispettati. Secoli di inganno sono più che sufficienti."

Ma vediamo se Israele è o no un paese razzista. Prima e dopo la fondazione dello Stato di Israele nel maggio del 1948, le milizie sioniste obbligarono a trasferirsi circa 750.000 persone, tutte di etnia araba e abitanti autoctoni della zona. Per ottenere ciò distrussero più di cinquecento città e villaggi e perpetrarono massacri indiscriminati di civili disarmati, come quello di Deir Yashin, in cui assassinarono a sangue freddo 254 donne, bambini e anziani. In questo modo, Israele si appropriava con la forza del 78% della Palestina storica sotto il Mandato Britannico, quando legalmente l’ONU gli aveva assegnato solo il 55%, e nonostante rappresentasse solo un terzo della popolazione e avesse annunciato quella che ora chiamiamo "pulizia etnica" nelle zone che gli sarebbero corrisposte. A seguito di ciò, circa 150.000 persone che avevano ottenuto di rimanere nel nuovo

Stato ebreo di Israele si trasformarono in ciò che ha preso la denominazione di "arabi-israeliani", pur non acquisendo tutti i diritti di cittadinanza, in quanto rimasti sotto giurisdizione militare fino al 67. Gli 800.000 arabi-israeliani di oggi, loro discendenti, non sono ancora considerati cittadini, ma stranieri senza diritti sul territorio e li si discrimina sistematicamente.

La cosiddetta "sola democrazia del Medio Oriente" nega dal 1967 il diritto ad una nazionalità a più di tre milioni e mezzo di persone che vivono nei Territori Occupati (quasi la metà in campi di rifugiati), con la perdita di ogni diritto ad esigere diritti, mentre altri sei milioni di persone sono stati condannati all’esilio e vivono nella loro maggioranza in campi di rifugiati in Giordania, Libano e Siria. Nei Territori Occupati le norme vigenti sono più di duemila ordinanze militari che regolano tutto e subordinano completamente la vita dei tre milioni e mezzo di arabi-palestinesi a quella dei circa trecentottantamila coloni ebrei che si sono installati lì.

Amnesty Internacional, nel rapporto intitolato "Il razzismo e il Ministero della Giustizia", diffuso nel 2001, metteva in evidenza il razzismo della "democrazia" israeliana:

"In Israele, ad esempio, varie leggi sono esplicitamente discriminatorie. Tutto si fa risalire alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la quale, provocata all’inizio dal genocidio razzista sofferto dagli ebrei in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, si basava sulla premessa di uno Stato ebreo per il popolo ebreo. Alcune leggi di Israele riflettono questo principio e, di conseguenza, discriminano i non ebrei, in concreto i palestinesi che sono vissuti in queste terre generazione dopo generazione. Varie parti delle leggi israeliane discriminano i palestinesi. La Legge del Ritorno, ad esempio, offre la cittadinanza israeliana automaticamente agli immigrati ebrei, mentre ai rifugiati palestinesi che sono nati e cresciuti in quello che ora è Israele viene negato il diritto a ritornare alle proprie case. Altri punti garantiscono esplicitamente un trattamento preferenziale ai cittadini ebrei in sfere come l’educazione, un’abitazione pubblica, la salute e il lavoro. [1]"

Israele non ha Costituzione, nel web del Parlamento israeliano si segnala che "tutte le leggi organiche, nel loro insieme costituiranno, con un’introduzione appropriata e diverse norme generali, la Costituzione dello Stato di Israele". Lo studio, elaborato dall’intellettuale palestinese Mazin Qumsiyeh [2] sulla legislazione israeliana segnala che "i non ebrei" non possono far parte della nazione di Israele o di Am Yisrael (il popolo di Israele), sebbene siano cittadini dello Stato. E’ importante mettere in rilievo questo punto. Per la legge israeliana tutti gli ebrei, indipendentemente dalle caratteristiche culturali, genetiche o di cittadinanza, sono considerati come i nativi israeliani, membri di Am Yisrael e hanno diritto a beneficiare automaticamente della residenza, a vivere nell’autoproclamato Stato Ebreo. La legislazione israeliana stabilisce come si acquisisce la cittadinanza [3]. Così, si osserva che un palestinese nato in villaggio della Galilea espulso nel 1948 non risponde ai requisiti, in quanto esiste la categoria di cittadino nazionale e cittadino non nazionale. Coloro che sono cittadini non nazionali (come i palestinesi che se ne andarono dopo le espulsioni del 1947-1949) non possono beneficiare di nessuna delle istituzioni e privilegi riservati ai nazionali. In questo modo, i palestinesi che non hanno potuto accedere alla cittadinanza hanno visto la loro proprietà assegnata agli ebrei, in accordo con la "Legge dell’Assente", promulgata nel 1950. Curioso è il fatto che molti di questi "assenti" sono "assenti presenti", e si tratta di quei palestinesi che rimasero dentro le frontiere dello Stato. Il risultato è il regime di apartheid vigente attualmente. Secondo la legge israeliana, che trova fondamento nell’ideale di "Stato del popolo Ebreo", un immigrato sionista europeo ha il completo diritto di vivere in un insediamento a Hebron, mentre un palestinese di quella stessa città può vedersi forzato emigrare a causa di tutte le restrizioni che vengono imposte nella zona, in campo sociale ed economico, per assicurare sicurezza ai fondamentalisti abitanti degli illegali insediamenti [4]. Questa distinzione tra ebreo e non ebreo è ciò che assicura la base per parlare dell’esistenza di un sistema di apartheid in Israele, dove il fatto

di avere una religione specifica determina il diritto alla salute, all’educazione, alla continuità territoriale, alla libertà religiosa e all’accesso all’acqua, tra l’altro.

La popolazione palestinese è sottomessa a un regime di occupazione militare che concede diritti distinti, a cominciare dal diritto di voto, a persone che abitano nello stesso territorio, a seconda della loro religione. Per i palestinesi, occupazione non ha significato solo morte, ma un sistema di discriminazione razziale che domina completamente tutti gli aspetti della loro vita: cosa si direbbe oggi ad esempio se un paese avesse come politica ufficiale l’espropriazione delle terre di ebrei, o semplicemente proibisse che un proprio cittadino possa avere la residenza se si sposa con un’ebrea? Chiaramente si parlerebbe di flagrante caso di discriminazione, di antisemitismo e sicuramente di sanzioni internazionali contro questo paese, come al tempo dell’apartheid sudafricano. Vediamo vari esempi della restrizione di diritti ai cittadini non ebrei dello Stato di Israele e come si consolidano per mezzo della legislazione israeliana e di una serie di istituzioni [5]:

A) Fondo Nazionale Ebraico: il 90% delle terre di Israele appartiene a questa istituzione, che secondo i suoi statuti non può essere venduto, affittato e persino lavorato da un "non ebreo".

B) Legge sulla Nazionalità: stabilisce chiare differenze nell’ottenimento della cittadinanza tra ebrei e non ebrei.

C) Legge sulla Cittadinanza: nessun cittadino israeliano può sposarsi con un residente dei Territori Occupati della Palestina; nel caso si realizzi l’unione, si perdono i diritti di cittadinanza in Israele e la famiglia se non è separata, deve emigrare.

D) Legge del Ritorno: qualsiasi ebreo del mondo può essere cittadino israeliano. Nel caso dei cittadini palestinesi dello Stato di Israele che hanno famigliari all’estero, non possono ottenere lo stesso beneficio solo per il fatto di non essere ebrei.

E) Legge dell’Assente: si dichiara assente chiunque fosse fuori dalla propria casa, dentro le frontiere di Israele o in uno Stato vicino, dopo il 29 novembre 1947, o quello stesso giorno, e di conseguenza le sue terre e le sue case diventano proprietà ebrea. Paradossalmente, non sono mai state espropriate le terre di un ebreo, mentre la maggioranza di esse è stata espropriata ai palestinesi.

Un altro esempio del carattere religioso dello Stato di Israele, che lo rende incompatibile con uno Stato di diritto democratico è offerto dal fatto che secondo la legislazione "non potranno concorrere alle elezioni del Parlamento quelle liste di candidati le cui intenzioni o azioni neghino l’esistenza di Israele in quanto Stato del popolo ebreo". Con questa legge diventa chiaramente illegale il fatto di sollecitare cambiamenti nella legislazione per poter mettere in discussione il concetto di Stato di una comunità religiosa, non accettare il concetto di uno Stato del "popolo ebreo", o cercare di trasformare Israele nello Stato di tutti i suoi cittadini [6]. Nessuno si azzarderebbe ad affermare che una democrazia può essere compatibile con un regime di apartheid, e malgrado ciò in Israele ci sono strade diverse per gli israeliani e i palestinesi. Il mondo si indigna quando ricorda che in Sudafrica i neri dovevano viaggiare nei sedili posteriori degli autobus, ma in Israele se un palestinese utilizza una delle strade riservate agli israeliani viene imprigionato e condannato a sei mesi di carcere. Ciò riguarda anche quelli che sono sempre vissuti in questi territori, ad esempio i circa trecentoquarantamila che vivono a Gerusalemme Est.

Non solo tutto questo è passato sotto silenzio e conta sulla complicità dei governi europei, ma quando in un luogo come l’ONU viene denunciato da un presidente, i "diplomatici" europei abbandonano la sala. Vale la pena di osservare le spiegazioni degli europei per giustificare il loro abbandono della sala. L’ambasciatore britannico all’ONU Peter Gooderham ha affermato che

"questa retorica infuocata non può in alcun modo essere accettata in una conferenza dell’ONU sul razzismo e su come combatterlo". Da parte sua, il presidente francese, Nicolas Sarkozy ha definito l’intervento di Ahmadinejad "un discorso di odio".

Gli europei – e naturalmente gli israeliani e gli statunitensi – avrebbero desiderato una Conferenza di parole vuote, un’ode all’uguaglianza delle razze, un annuncio di Benetton forse. Ma esistono molte voci che, quando si parla di razzismo, vogliono indicare il razzista, come si fece in passato con il Sudafrica. L’ipocrita Europa non lo ha potuto sopportare. Con ciò i suoi governi hanno superato il limite della loro miseria e complicità con il razzismo, finendo di boicottare la sua denuncia.

Note

L’informazione sul carattere razzista dello stato di Israele è tratta dal libro di Pascual Serrano "Desinformacion. Como los media ocultan el mundo", Editorial Peninsula, la cui uscita è prevista nel mese di maggio.

[1] Informe de Amnistía Internacional, de 2001: Racism and the Administration of Justice (Racismo y el Ministerio de Justicia)

[2] Qumsiyeh, Mazin. Compartiendo la Tierra de Canaán (Capítulo 7). Pluto Press 2004. Ver http://www.rebelion.org/noticia.php?id=47137

[3] Ver http://www.israel.org/MFA/Facts%20About%20Israel/State/Acquisition%20of%20Israeli%20Nationality

[4] Abu Eid, Xavier, Jurisdicción y Legitimidad: Claves para entender el conflicto Palestina/Israel. Rebelion.org 28-8-2006. http://www.rebelion.org/noticia.php?id=36692

[5] Abu Eid, Xavier, Jurisdicción y Legitimidad: Claves para entender el conflicto Palestina/Israel. Rebelion.org 28-8-2006. http://www.rebelion.org/noticia.php?id=36692

[6] Capítulo 7 del libro Compartiendo la Tierra de Canaán, de Mazin Qumsiyeh. Pluto Press 2004 http://www.rebelion.org/noticia.php?id=47137

[7] Ramonet, Ignacio. "Por una resistencia de masas no violenta contra Israel". Entrevista con el líder palestino Mustafá Barghouti. Le Monde Diplomatique. Mayo 2008

* Pascual Serrano è un noto giornalista spagnolo, collaboratore di "Mundo Obrero", rivista del Partito Comunista di Spagna, e di numerose testate di fama internazionale (tra cui "Le Monde Diplomatique"). Il testo originale dell’articolo, "Boicotear la denuncia del racismo", pubblicato dal suo sito www.pascualserano.net, è stato ripreso in http://www.rebelion.org/noticia.php?id=84192&titular=boicotear-la-denuncia-del-racismo-.

La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di www.lernesto.it.

blogmasters g.40, gino pino, Ter