“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

venerdì 26 settembre 2008

Lo stoccaggio di un "popolo di troppo" - i palestinesi

di Jeff Halper (http://www.icahd.org)

Il ritmo dei cambiamenti sistemici in quell'entità indivisibile, conosciuta come Palestina/Israele, è così rapido da superare, quasi, la nostra capacità di tenercene al corrente. La campagna deliberata, e sistematica, per cacciare i palestinesi dal Paese, nel 1948, è stata rapidamente dimenticata; la triste situazione di più di 700.000 profughi è divenuta qualcosa di invisibile, che neanche si pone come problema. Al contrario, un Israele impavido, europeo e “socialista” è diventato il beniamino di tutti, sinistra radicale compresa, eclissando completamente la pulizia etnica che aveva reso possibile creare lo Stato.

Allo stesso modo, l'occupazione da parte di Israele, nel 1967, della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza è rimasta un problema virtuale, che nemmeno si è posto, fino allo scoppio della prima Intifada, alla fine del 1987. L'unica parte del conflitto ad apparire sul radar pubblico è stata l'equazione fra palestinesi e terrorismo. [...]
Il ragionamento più efficace, contro la lotta palestinese, è l'idea, assai diffusa, che Arafat, a Camp David, abbia rifiutato la “generosa offerta” di Ehud Barak. Nell'interpretazione scompaiono i fatti reali: che non vi è mai stata una “generosa offerta”, e che, persino se Barak avesse proposto il 95% dei Territori Occupati - come Olmert ha di recente “offerto” il 93% -, uno stato palestinese costituirebbe poco più di un bantustan sudafricano tronco, economicamente non autosufficiente, su meno del 20% della Palestina storica. Tutto ciò che resta è la ri-demonizzazione di Arafat. Che Sharon abbia in seguito imprigionato il presidente palestinese in una stanza buia di un quartier generale demolito, eliminandolo politicamente, e, credo, pure fisicamente, non ha in pratica suscitato opposizioni, e neppure critiche, nella comunità internazionale.
[...]
La legge internazionale, infatti, definisce l'occupazione “una situazione militare temporanea”. L'aver istituito più di 200 colonie ed avamposti per soli ebrei nei Territori Occupati, organizzati in sette grandi “blocchi”, tutti legati inestricabilmente all'Israele propriamente detta da una rete massiccia di autostrade solo per israeliani, e, alla fine, la Barriera di Separazione, l'hanno resa permanente. Un indivisibile sistema di Israele, non più temporaneo o fondata sulla sicurezza, si è esteso fra il Mediterraneo e il Giordano. Chi di noi era risolutamente deciso a vedere ha scorto, davanti ai propri occhi, il vero: che ci si impegnasse o meno per una soluzione a due stati, l'Occupazione è stata trasformata in un sistema di APARTHEID PERMANENTE. Finora, è una realtà di fatto. Se il “Processo di Annapolis” funziona in base al piano israeliano, lo diventerà anche di diritto, venduto abilmente come una “soluzione a due stati”, e approvato da un leader collaborazionista palestinese. Nella realtà, tuttavia, Annapolis, non è importante. Israele sa che ne' i palestinesi, ne' la società civile internazionale accetteranno l'apartheid. La sua funzione è quella che si voleva avessero tutti gli altri “processi politici” degli ultimi quattro decenni: procrastinare ogni soluzione che richiederebbe da Israele concessioni significative, accordandole intanto la copertura politica ed il tempo per creare, sul terreno, fatti irreversibili.
La “Occupazione” da parte di Israele ha oltrepassato l'apartheid – termine che è divenuto superato quasi nel momento stesso in cui lo si è iniziato ad accettare, fra grandi proteste e strepiti. Ciò che si è sviluppato davanti ai nostri occhi – qualcosa che avremmo dovuto vedere, ma per il quale non avevamo termini di riferimento – è un sistema di stoccaggio, una situazione statica svuotata di ogni contenuto politico.
“Quel che Israele ha costruito”, sostiene Naomi Klein, nel suo nuovo e straordinario libro, The Shock Doctrine, "è un sistema, ... una rete di recinti a cielo aperto per milioni di persone, classificati come umanità eccedente.... I palestinesi non sono l'unico popolo al mondo ad essere stato categorizzato in questo modo.... Lo scartare dal 25 al 60 per cento della popolazione è stato il marchio di fabbrica della crociata intrapresa dalla Scuola [di Economia] di Chicago.... In Sud Africa, in Russia e a New Orleans, i ricchi costruiscono intorno a sé dei muri. Israele ha condotto ancora più avanti questo processo di rifiuto: ha costruito muri intorno ai poveri pericolosi” (p. 442).
I fatti israeliani sul terreno non sono altro che l'esprimere in modo fisico una linea che cerca di depoliticizzare, e quindi di normalizzare, il controllo esercitato. Lo scontro israelo-palestinese non è presentato come un conflitto che ha parti in causa ed una dinamica politica. È descritto, invece, come una “guerra al terrorismo”, una lotta con un fenomeno che elimina – o indica come irrilevante – ogni riferimento all'occupazione, che Israele ufficialmente nega di imporre. [...].
“Tenere in stoccaggio” è l'espressione migliore, anche se la più cupa, per quanto Israele sta attuando per i palestinesi dei Territori Occupati. È qualcosa di peggiore, per diversi motivi, dei bantustan sudafricani dell'era dell'apartheid. Le dieci “patrie”, economicamente non autosufficienti, istituite dal Sud Africa per la maggioranza africana nera sullo 11% soltanto del territorio del Paese erano, certo, un tipo di stoccaggio. Avevano lo scopo di fornire al Sud Africa manodopera a basso prezzo, liberandola della popolazione nera; questo rendeva possibile una “democrazia” dominata da europei. Questo è precisamente ciò a cui Israele mira - tramite un bantustan palestinese che comprende all'incirca il 15% della Palestina storica -, ma con un limite cruciale: ai lavoratori palestinesi non sarà permesso recarsi in Israele. Avendo scoperto una manodopera più a buon mercato - circa 300.000 lavoratori stranieri, importati da Cina, Filippine, Thailandia, Romania ed Africa Occidentale, con l'aggiunta dei propri cittadini arabi, mizrachi, etiopi, russi e dell'Europa dell'Est – Israele può permettersi di rinchiudere fuori i palestinesi, impedendo loro, nel contempo, di avere un'economia autosufficiente che sia la loro, legata senza ostacoli ai Paesi arabi circostanti. Da ogni punto di vista – storico, culturale, politico ed economico – i palestinesi sono stati definiti come una “umanità in sovrappiù”; l'unica cosa da fare con loro resta lo stoccarli, atto che la comunità internazionale, che se ne interessa, pare voler permettere ad Israele. Dal momento che lo stoccaggio è un problema globale, e che Israele ne presenta, pionieristicamente, un modello, quel che avviene ai palestinesi dovrebbe preoccupare chiunque. Potrebbe costituire un crimine interamente nuovo contro l'umanità, e come tale, dovrebbe essere soggetto alla giurisdizione internazionale dei tribunali del mondo, così come lo sono altre gigantesche violazioni dei diritti umani. In questo senso, la “Occupazione” israeliana ha implicazioni che oltrepassano di gran lunga un conflitto localizzato fra due popoli.
[...]
Guardare alla Palestina come ad un microcosmo di una più vasta realtà globale di stoccaggio ci rende capaci di identificare in modo più efficace gli elementi che compaiono altrove e di comprendere il modello che Israele sviluppa, per opporvisi meglio. In ogni caso, il nostro linguaggio, e l'analisi che questo genera, devono non solo essere onesti e privi di inutili riguardi: devono anche mantenersi al corrente delle intenzioni politiche e dei “fatti sul terreno”, che si espandono sempre più rapidamente.
Testo integrale su:
Tradotto da Paola Canarutto

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