“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

lunedì 25 ottobre 2010

Brigate Internazionali pacifiste o nuovo metodo eurocentrico di ingerenza nella resistenza palestinese?

di Fernando Casares *
Noi che appoggiamo la degna e giusta causa palestinese dall’estero facciamo parte di un movimento internazionale. Un movimento ha la caratteristica di essere un’organizzazione di persone che si associano seguendo un’idea e iniziativa precisa (o varie di esse) e indubbiamente rappresenta i più diversi settori della società nel suo spettro ideologico.
Questo significa che possiamo avere una pluralità di opinioni e posizioni politiche rispetto ad altri temi, in alcuni casi persino opposte. I movimenti, nel bene o nel male, hanno la particolarità di essere plurali, popolari e allo stesso tempo sono come un pendolo che va dalla sinistra alla destra del pensiero politico.
All’interno di questo contesto avvertiamo da un po’ di tempo che esistono vari settori. Oggi voglio parlare di uno di questi: quello composto dalle brigate di attivisti internazionali che spesso si recano in Cisgiordania per manifestare insieme ai palestinesi secondo il metodo, sempre lodevole, della resistenza pacifica. Siamo consapevoli che alcuni di questi attivisti internazionali a volte sollevano proteste perché alcune manifestazioni finiscono con episodi di violenza da parte dei soldati israeliani, attuati come risposta a singole intifade per mano di alcuni giovani palestinesi. Molto spesso gli attivisti dichiarano che non è quella la forma efficace di lotta e resistenza, che in quel modo non si ottiene altro che la perpetuazione della violenza da parte dello Stato israeliano. Che quello non è il metodo opportuno e corretto. Alcuni arrivano persino a pentirsi di aver partecipato a quelle manifestazioni che definiscono violente senza alcun pudore.

È su questo punto che dobbiamo fare una serie di precisazioni e considerazioni al fine di comprendere le vere dimensioni del conflitto.

La prima cosa da dire è che i palestinesi hanno il diritto inalienabile di resistere con i metodi che ritengono più opportuni fino ad ottenere la propria liberazione. Un movimento di liberazione soggetto a una simile oppressione, pulizia etnica, genocidio, colonialismo, razzismo e apartheid, deve trovare all’interno del proprio popolo i mezzi di cui dispone per una legittima resistenza. In questo senso è essenziale comprendere che ci troviamo davanti a un popolo che soffre una tragedia da più di 62 anni con un livello di violenza e impunità da parte dello Stato israeliano senza precedenti nella Storia contemporanea.

In secondo luogo dobbiamo capire che molti di quei giovani sono illesi fisicamente ma hanno la vita distrutta. Molti hanno perso i genitori, i fratelli, i vicini, gli amici… tutto. È del tutto comprensibile che molti di loro provino un sentimento di impotenza, furore, odio e rabbia contenuta. Con quale diritto diciamo loro di non tirare pietre? Da quale pulpito glielo diciamo, dalla nostra opulenta vita occidentale che gode di una pace che loro non conoscono da 62 anni? Le cose non stanno già abbastanza male con e senza pietre? Ci possiamo aspettare che azioni totalmente pacifiche ottengano un qualche risultato a breve e medio termine dall’unico paese che gode di un’impunità in materia di diritti umani senza precedenti nel contesto storico contemporaneo?

In terzo luogo dobbiamo capire che la causa palestinese ha bisogno del nostro appoggio e della pressione sulle autorità politiche che ci rappresentano nei nostri rispettivi paesi, non della nostra imposizione dei modi per ottenere la propria liberazione o delle forme di governo che noi riteniamo più opportune secondo i nostri parametri occidentali-europei.

È tipico della mentalità colonialista dire al colonizzato come vivere, come si deve comportare e persino come resistere (e ultimamente come si deve governare). Mentre il colonizzatore fa e disfà a suo piacimento con i metodi che ritiene più opportuni, allo stesso tempo impone al colonizzato un modo di essere secondo i propri parametri senza preoccuparsi di disumanizzarlo, stigmatizzarlo e/o criminalizzarlo, se non addirittura di definirlo terrorista. È successo in Algeria mentre lo stivale del colonizzatore francese si apriva il passo nella terra di Abdel Khader finché il popolo unito e in armi, esercitando una piccola parte della violenza ricevuta per più di 130 anni, si liberava definitivamente ed espelleva i coloni francesi dall’Africa settentrionale.

È importante capire qual è il nostro posto in questo conflitto. Non deve mai essere quello di imporre o dire all’oppresso che resiste come si deve comportare e come deve lottare.

In ogni caso, sarà lottando al suo fianco che si potranno costruire percorsi di fiducia e fraternità in grado di reindirizzare le lotte in funzione della maggiore o minore efficacia.

Ma sempre, sempre dando l’appoggio incondizionato al movimento di liberazione. Abbiamo il dovere di smettere di essere eurocentrici e di comprendere appieno con forte dosi di empatia il contesto sociale, culturale e storico nel quale ci muoviamo.

E non sarebbe male, già che ci siamo, tornare a leggere Franz Fanon.
* da Fernando Casares
http://rompiendo-muros.blogspot.com/2010/10/brigadas-internacionales-pacifistas-o.html

traduzione di Flavia Vendittelli

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