“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

domenica 17 ottobre 2010

Collaborazioni scientifiche israelo-palestinesi e riconciliazione

Le collaborazioni scientifiche israelo-palestinesi rappresentano un surrettizio paravento del contesto nel quale esse si svolgono: l’asimmetria perdurante tra uno stato oppressore e un popolo oppresso.


DI ANGELO STEFANINI *

È stato praticamente ignorato in Italia il comunicato di studenti e professori palestinesi[1] che disapprova un progetto di collaborazione tra l’università La Sapienza di Roma, l’università palestinese Al Quds di Gerusalemme e tre università israeliane, iniziativa patrocinata dal Ministero degli Esteri italiano e Unesco. Nessuna meraviglia per tale silenzio in un momento in cui, nonostante la campagna di boicottaggio contro Israele[2] stia crescendo visibilmente a livello internazionale, i principali media italiani se ne tengono prudentemente a distanza. Per un sostenitore della teoria del complotto tutto ciò ha un chiaro significato.


Il controllo delle immagini e delle parole necessarie per raccontare un conflitto è diventato un’arma fondamentale nei conflitti moderni, in particolare in quello israelo/palestinese. Molto spesso l’esatta comprensione dei fatti è legata non soltanto a quello che c’è nella notizia così come viene riportata e commentata, ma soprattutto a quello che non c’è. Il contesto è essenziale alla comprensione della realtà. Il contesto che troppo spesso manca nei reportage sul conflitto israelo-palestinese è che uno di questi due popoli sta combattendo sulla propria terra per liberarsi da un’occupazione da parte dell’altro che dura da 43 anni, occupazione dichiarata illegittima dalle Nazioni Unite e dalla maggioranza dei suoi membri. Quando questi fatti non sono presenti nel racconto, allora la storia non ha più molto senso e il tutto viene ridotto al “circolo vizioso” in cui alla violenza di un contendente risponde la violenza dell’altro, in un conflitto a somma zero su identità nazionale e diritto all’esistenza di due popoli. La rimozione del reale contesto da cui emergono i violenti fatti riportati dai media è frutto dell’opera di “normalizzazione” condotta, più o meno intenzionalmente, su diversi fronti e che porta a legittimare lo status quo attuale, a descriverlo come “normale”, appunto, e quindi accettabile per quello che è, o che sembra essere.

Uno dei maggiori successi della narrazione israeliana è infatti il quasi totale oscuramento della realtà storica e politica dell’occupazione del territorio palestinese da parte di Israele. Ci sono voluti i cosiddetti “nuovi storici israeliani”, come Benny Morris, Avi Shlaim e Ilan Pappè, per riscrivere criticamente pagine fino ad ora considerate “eroiche” dello Stato di Israele. Giornalisti ebrei israeliani coraggiosi e pluri-premiati come Amira Hass o Gideon Levy sono sconosciuti alla grande parte dei lettori. L’impressione è che una vasta parte dell’opinione pubblica e dei governi sia in preda ad una sorta di amnesia storica che ha rimosso il fatto che fino a 62 anni fa esisteva una regione chiamata Palestina abitata da un suo popolo, dal 1922 al 1948 amministrato dalla Gran Bretagna per conto della Lega delle Nazioni, ma poi sistematicamente espropriato, occupato e colonizzato da quello che oggi si chiama Israele.

Un sostanziale aspetto che spesso sfugge di questa realtà è che le istituzioni del potere occupante, comprese le università e i centri di ricerca, fanno parte integrante delle strutture di dominio, di controllo e di “normalizzazione”. Abbondante documentazione attesta le responsabilità gravissime delle università israeliane non soltanto nel mantenimento dello status quo ma anche nell’attiva partecipazione all’occupazione e all’industria bellica che la alimenta[3,4,5]. Delle reali intenzioni di organizzazioni come il Centro Peres per la Pace, tanto corteggiato dai promotori dei progetti di pace e riconciliazione, così scrive Meron Benvenisti, ex vice-sindaco di Gerusalemme: “Nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è nessuno sforzo palese compiuto per un cambiamento dello status quo politico e socioeconomico nei Territori Occupati, ma proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei[6]“.

Ambigua neutralità e normalizzazione sono gli schermi illusori dietro cui finiscono la gran parte delle iniziative che propongono la collaborazione scientifica tra israeliani e palestinesi come terreno, appunto, neutrale e utile a fare scoccare la scintilla della pace. Va notato che neutralità non è sinonimo di imparzialità[7]. La prima significa astenersi dal prendere posizione sul merito e sulle ragioni delle parti in un conflitto. Imparzialità vuol dire prendersi cura di tutti in modo uguale perché ogni vita ha pari valore[8]. Nel caso della questione palestinese un falso concetto di neutralità può facilmente far perdere di vista i termini storici del conflitto e far cadere nella trappola del “circolo vizioso” sopra accennato secondo cui le ragioni israeliane e palestinesi sono uguali, simmetriche e polarizzate attorno ad un centro equidistante.

Su questi presupposti sono nati progetti come “Health as a Bridge for Peace”, “Science for Peace” e lo sventurato, a mio avviso, e inevitabilmente travagliato “Saving Children – Medicine for Peace” delle regioni Toscana ed Emilia-Romagna con il Peres Centre israeliano. Dietro l’illusoria pretesa di a-politica neutralità, essi in realtà contengono un’agenda politica ben chiara soprattutto per ciò che non dicono sull’enorme disparità nel rapporto tra le due parti, l’uno occupatore e l’altro occupato, l’uno padrone e l’altro servo. In questo gioco delle parti, a prescindere dalle intenzioni, professionisti e accademici della parte più debole sono attentamente blanditi e facilmente attratti da finanziamenti, attrezzature e opportunità troppo prestigiose e allettanti da permettere eroiche rinunce. Il tutto in una prospettiva di priorità spesso non rispondenti ai reali bisogni della popolazione[9].

Anche chi scrive è rimasto vittima di questa trappola facendosi promotore anni fa, in qualità di responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Territorio Occupato, di una rivista di sanità pubblica prodotta da israeliani e palestinesi. “Bridges”, così si chiamava, avrebbe dovuto appunto gettare “ponti di pace” tra le due società aiutando il dialogo reciproco, a partire da temi scientifici.

Ben presto apparve chiaro il divario esistente tra le due parti, la riluttanza di quella più forte ad affrontare temi (come le implicazioni sanitarie di occupazione, discriminazione e colonizzazione) che necessariamente richiedono un processo di “correzione” delle ingiustizie passate e presenti e quindi la messa indiscussione dello status quo e della realtà dell’oppressione. Esempi analoghi abbondano[10].

Esistono tuttavia iniziative di collaborazione professionale che possono promuovere la pace tra israeliani e palestinesi: una di queste è l’organizzazione israeliana Physicians for Human Right – Israel (PHR-I). Come afferma uno studio[11] sull’efficacia di analoghi progetti di promozione della pace, nel contesto israelo-palestinese un’organizzazione medica che si fondi sul giuramento di Ippocrate non può astenersi dal prendere atto di quello stesso contesto politico che contribuisce alla sofferenza di entrambi i popoli. Non esprimersi sulle politiche e le pratiche che violano il diritto alla salute significa legittimare le stesse azioni che opprimono la popolazione. Denunciando le responsabilità dell’occupazione nel privare i palestinesi del diritto alla salute, PHR-I evita di normalizzare e legittimare le violazioni dei diritti umani. Lo studio conclude: “I risultati della ricerca indicano che… si possono organizzare quanti progetti si vuole su temi e con finalità superordinate [come la salute], magari riuscendo ad interrompere la diffusione dell’Influenza Aviaria, ma finché le radici del conflitto non vengono esplicitate e sempre più organizzazioni e individui non prendono posizione contro l’occupazione, tutto questo lavoro va perduto nelle realtà sistemiche che creano le condizioni dell’oppressione. [Questi progetti] non cambiano la percezione pubblica del problema. Non modificano le politiche governative. E non contribuiscono alla pace”(p.70). In tali progetti di cooperazione scientifica la parola “pace” compare soltanto nel titolo[12].

Credo quindi che sia legittimo denunciare come pericolose e astenersi da iniziative che, se non accettano di riconoscere esplicitamente i diritti dei palestinesi e non si oppongono in modo netto all’ingiustizia dell’occupazione, della colonizzazione e della discriminazione a cui una delle due parti è soggetta, finiscono per dare una falsa apparenza di uguaglianza tra i due contendenti, spalmando di una vernice di legittimità e magnanimità l’immagine pubblica di Israele. L’arroganza di queste iniziative “a favore della pace” sta nella tentativo di porre sullo stesso piano il colonizzatore e il colonizzato, l’oppressore e l’oppresso. Per quanto spesso frutto di buona fede, esse servono a promuovere la facciata di un Israele “democrazia illuminata” e benevola, oscurando il fatto che, nonostante la sua enorme potenza militare e nucleare, giustifica la sua costante violazione della legislazione internazionale e dei diritti umani come legittima difesa nei confronti di una nazione priva di esercito e del controllo di beni e mezzi (come territorio, tempo, risorse umane e naturali) essenziali per godere di reale autonomia.

Resistere a questa subdola opera di normalizzazione e legittimazione di una situazione inaccettabile vuol dire lavorare per l’educazione non solo dell’oppresso, ma anche dell’oppressore. Quest’ultimo, infatti, essendo il detentore del potere maggiore, non vede nessun interesse nell’imbarcarsi in un processo di riparazione delle ingiustizie commesse, anzi ritiene un’indebita imposizione tutto ciò che limita il suo diritto di opprimere poiché non gli permette di “stare in pace”. È necessario che l’ingiustizia perduri affinché il potente possa agire come “generoso”, mettendosi con magnanimità, ma ben conscio della sua superiorità, al tavolo della collaborazione “scientifica” con l’oppresso. Al contrario, la conquista implicita del dialogo è quella del mondo che i due soggetti realizzano insieme. Come diceva Paulo Freire, nessuno si salva da solo ma insieme all’altro[13].

Troppo spesso la tattica usata per evitare possibili conflittualità è fatta di silenzio, inazione e omissione. Come quando, in un chiaro esempio di violenza culturale[14], contribuiamo a “epurare” il nostro linguaggio da significati scomodi, per esempio cancellando il termine “occupazione” dal nostro vocabolario. In questo modo l’espressione ufficiale di “Territori Palestinesi Occupati” (impiegato da Nazioni Unite e Unione Europea) si trasforma in “Territori Palestinesi”, in un misto di colpevole ambiguità e ignavia degne delle parole del magistrato Dante Troisi: “… quando dovrà giudicarci, Dio stesso si troverà a disagio, tanto abile è la commistione di bene e male, così perfetta la nostra tecnica dell’approssimazione all’uno e all’altro estremo. Ogni giorno ci adoperiamo ad intricare il processo che ci aspetta, mescolando ignavia e coraggio, angoscia e superbia e umiltà, sicchè l’esistenza diventi un groviglio inestricabile, e soprattutto non sia più di un crepuscolo: se verso la notte o il giorno, toccherà di interpretarlo al Signore. Il quale, certamente, non vorrà degradarsi, competere con noi, giocolieri del compromesso, ed esigere un rendiconto: ci lascerà passare, scrollandosi nelle spalle[15].

*Angelo Stefanini. Centro Studi e Ricerche sulla Salute Internazionale e Interculturale, Universita’ di Bologna. Coordinatore Sanitario Cooperazione Italiana – Gerusalemme

Bibliografia

1. Palestinian students, teachers condemn Italian university’s normalization project. Statement, Palestinian Students’ Campaign for the Academic Boycott of Israel, University Teachers’ Association in Palestine, 7 July 2010

2. Appello unitario palestinese per il BDS contro Israele

3. Uri Yacobi Keller. The Economy of the Occupation. A Socioeconomic Bulletin, n.23-24, October 2009 [PDF: 243 Kb]

4. Urgent Briefing Paper. Tel Aviv University – A Leading Israeli Military Research Centre. Prepared By SOAS Palestine Society, February 2009 [PDF: 178 Kb]

5. Bartolomei E, Perugini N, Tagliacozzo C. (a cura di). Pianificare l’oppressione. Le complicità dell’accademia israeliana. Edizioni SEB 27, 2010.

6. Meron Benvenisti. A monument to a lost time and lost hopes

The marking of the 10th anniversary of the Peres Center for Peace was a glittering event. Haaretz.com 30.10.08

7. Definizione: obiettività. Vocabolario Treccani

8. Humanitarian principles. Wikipedia

9. AN OPEN LETTER TO THE PALESTINIAN AND INTERNATIONAL COMMUNITY REGARDING PALESTINIAN-ISRAELI COOPERATION IN HEALTH. Health Sector Signatories, Occupied Palestine, Palestinian Committee for the Academic and Cultural Boycott of Israel, May 2005

10. Straight Talk. A debate between Israeli and Palestinian doctors. BMJ 2010;340:c3081.

11. Kitts, Judy. Peace through Health: A Case Study of Physicians for Human Rights. B.A. Thesis, Queen’s University, 2008.

12. Skinner H, Abdeen Z, Abdeen H, et al. Promoting Arab and Israeli cooperation: peace-building through health initiatives. The Lancet 2005; 365: 1274-77.

13. Freire, Paulo. Pedagogy of the oppressed. Penguin Books, 1972. P. 41. Tradotto in italiano: La pedagogia degli oppressi. Gruppo Abele Edizioni, 2002.

14. Galtung J. Cultural Violence. Journal of Peace Research 1990, 27(3): 291-305.

15. Troisi, Dante. I bianchi e i neri. Laterza, 1965.

da SALUTE INTERNAZIONALE del 3 ottobre 2010

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