“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

mercoledì 25 giugno 2008

Il diario di Paola

Diario di viaggio in Palestina: 2-6 novembre 2007
di Paola Canarutto (Rete-ECO, Ebrei Contro l'Occupazione)

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3 novembre
Oggi, appuntamento con la Union of Health Work Committees (UHWC) nella loro sede di al-Bireh, cittadina vicino a Ramallah. Ahmad Maslamani., il direttore, mi spiega che fare: “Prendi il pullman fino a Qalandya. Di lì, sali su un taxi, e telefonami con il cellulare, che spiego al guidatore dove portarti”. Funziona. Così verso i 16.000 euro avuti dalla Regione e i 3.100 ricevuti dalla sezione torinese “Dolores Ibarruri” del PdCI. Quindi, Ahmad mi consegna a Y.: è lui a portarmi in auto a Marda, per vedere di persona l'ambulatorio. […]

Per arrivare a Marda, tre posti di blocco. “Posso fotografare i soldati?” chiedo a Y.. “No, mi raccomando”, fa lui, preoccupato. “È pericoloso”. Marda è interamente circondata da un recinto invalicabile. All'unico ingresso aperto, un cancello, che gli israeliani possono chiudere a piacimento; hanno chiuso l'altra strada con cumuli di pietre. Dall'altra parte della 'barriera', terreno del villaggio, accessibile ora solo ai coloni di Ariel: per gli abitanti di Marda, gli olivi che lì crescono sono ormai irraggiungibili.

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Al ritorno, solo due posti di blocco: uno di quelli incontrati al mattino, mi spiega Y., era un 'flying checkpoint'. In cambio, l'attesa è ben più lunga: i militari sono molto più interessati a controllare chi cerca di dirigersi a sud, verso Gerusalemme, che chi va nella direzione opposta. Y., 33 anni, non ha figli. “Non sono sposato: sono stato in carcere, e fino a poco fa non avevo un lavoro; ora mi occupo delle relazioni esterne per l'UHWC. Ho preso il master all'università di Bir Zeit, e vorrei proseguire gli studi. Ma gli israeliani mi proibiscono di andare all'estero: sono classificato come un 'pericolo per la sicurezza', perché sono stato in prigione”. Mi mostra le colonie, che si vedono dalla strada. Una è costituita da roulotte, visibilmente collegate alla rete elettrica. “È ancora provvisoria”, spiega Y., assuefatto allo sviluppo degli insediamenti ebraici: “fra un po', diventerà definitiva”. Gli chiedo cosa si aspetta, dal punto di vista politico, per i prossimi 6-12 mesi. Si stringe nelle spalle: “Annapolis è una presa in giro: tutto continuerà come prima. Olmert ha promesso di liberare 300 prigionieri, ma poi ne arresta 35 tutte le notti: quanto ci mette a riequilibrare il conto? It's the Jews, sono gli ebrei”. Mi mordo le labbra e taccio: ora vorrei solo a tornare a Gerusalemme senza incidenti.

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Delle due corsie della strada principale di Ramallah, una è inaccessibile al traffico: ci lavorano stradini con rulli compressori. Un cartello spiega che i fondi proventono 'From the American People to the Palestinian People'. Gli USA stanno ricostruendo la strada distrutta dal passaggio dei carri armati israeliani. Basta una giornata in Cisgiordania per farmi riflettere che, perché le trattative fra Abu Mazen e Olmert non fossero puramente aria fritta, destinata al consumo degli occidentali, basterebbe che il primo ponesse, come condizione per partecipare agli incontri, l'abolizione dei posti di blocco. Questo però non avviene. Di Gaza si scrive che è una prigione a cielo aperto. Ma ottenere il permesso per andarvi è un'operazione superiore alle mie forze. La Cisgiordania, invece, pare un insieme di gabbie, in cui il passaggio da una all'altra è possibile solo se ciò piace agli occupanti. Incontri fra palestinesi ed israeliani, che non siano i soldati, praticamente non ci sono più: gli israeliani non possono entrare nelle zone palestinesi, dell'inverso, neanche parlare. Chi risiede a Ramallah, non si può - da anni - andare a Gerusalemme: è per questo che Y. non ha potuto riaccompagnarmi indietro.

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6 novembre
L'incontro di oggi è con Jeff Halper, che spiega i presupposti del suo lavoro. “L'ICAHD ("Comitato israeliano contro la demolizione delle case dei palestinesi" http://www.icahd.org/eng/; ndr) esiste dal '97, cioè dal governo Netanyahu – da quando era diventato chiaro che il processo di pace si era interrotto. Dal 1987, Israele ha distrutto 18.000 case palestinesi nei Territori Occupati (T.O.). Ma gli israeliani non usano il termine 'palestinesi': si adopera è un indistinto 'arabi'. Quando ci si comincia a chiedere se esiste una qualche possibilità di successo per la soluzione dei due stati, la sinistra sionista, inclusi il partito Meretz e Uri Avnery, ha paura. In assenza di uno stato palestinese, si ha l'apartheid. Se si arriva ai due stati, si può scindere l'occupazione dallo stato di Israele 'in sé'. È ormai chiaro a tutti che la soluzione bi-statale non può avere successo; è un'idea tipica del sionismo. Questo vuole tutto il Paese, tutta la terra di Israele. Gli israeliani vedono l'insieme come 'Eretz Israel'; i palestinesi, come uno stato palestinese. Non penso che si porrà fine all'occupazione; il problema vero, peraltro, è se si può avere uno stato ebraico. La storia degli stati binazionali non è felice: vedi il Libano, ma ora anche il Belgio. Se si arriva ad un solo stato, i palestinesi saranno la maggioranza, ma saranno pur sempre gli ebrei a godere di maggiore istruzione ed a tenere le leve dell'economia. Abbiamo come parola d'ordine che si deve por fine all'occupazione. Per gli israeliani, la soluzione di uno stato solo è un 'non starter'. Anche i palestinesi, d'altra parte, vogliono uno stato loro. In realtà, solo il 10% tiene davvero per Hamas. Se non si lotta, la situazione evolve spontaneamente verso uno stato unico. Per i palestinesi, questo è l'obiettivo – con una fase intermedia di bi-statale. La struttura dell'occupazione non è casuale: esiste uno schema preordinato dietro il posizionamento delle colonie e delle strade. Scopo di Israele è arrivare ad un bantustan, ad un ministato palestinese non in grado di sopravvivere economicamente.

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La demolizione di case non è iniziata nel '67, ma nel '48: è allora che Israele ha distrutto circa 500 villaggi. Ora, i profughi ed i loro discendenti sono 4 milioni e mezzo. Nel '67, Israele ha inaugurato l'occupazione di Gerusalemme distruggendo le case davanti al Muro del Pianto: una donna non è riuscita a fuggire, ed è rimasta sepolta tra le macerie. La distruzione di case è insita al potere israeliano, ed alla cacciata dei palestinesi: è per questo che è essenziale combatterla. La sinistra israeliana riconosciuta arriva al Meretz, a Peace Now: Michel Waschawski (israeliano co-fondatore del centro di informazione alternativa AIC: http://www.alternativenews.org/; ndr) ed io non facciamo parte dell'insieme. In Israele mancano persino i termini per inquadrare e comprendere quel che scrive Avraham Burg, per il quale uno stato 'ebraico e democratico' è dinamite. Occorre far attenzione all'uso del linguaggio, delle definizioni. A Rafah, l'esercito israeliano (IDF) ha sostenuto di aver distrutto 52 case. Chris McGreal, del Guardian, ha sostenuto che erano centinaia. Il problema è come l'IDF ha fatto i conti: e case di cui erano restate le fondamenta e due pilastri non erano state definite 'distrutte'.
Si stanno distruggendo le culture palestinesi”.

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http://www.rete-eco.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1886:diario-di-viaggio-in-palestina&catid=1:rete-eco&Itemid=25

http://www.unacitta.it/pagineinternazionalismo/Canarutto.html

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