“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

lunedì 7 febbraio 2011

Se cade l'Egitto. Trema il sistema dei regimi arabi

La rivoluzione egiziana è scoppiata improvvisa e inaspettata, cogliendo impreparati i principali attori del panorama politico internazionale malgrado i segnali premonitori che erano giunti dalla Tunisia, dove un regime fino a quel momento considerato fra i più stabili del mondo arabo è crollato nel giro di poche settimane, travolto da una sollevazione popolare che ha assunto forme nuove ed in precedenza sconosciute nella regione.


Tuttavia, sebbene il momento esatto in cui scoppia una rivolta di massa non possa mai essere previsto con certezza poiché la scintilla che la determina dipende solitamente da fattori contingenti, le ragioni profonde ed i segnali premonitori di una possibile deflagrazione sociale in diversi paesi arabi erano sotto gli occhi di tutti (se non fosse per il fatto che tutti hanno voluto chiudere gli occhi o guardare altrove).
LE RAGIONI STORICHE DELLA CRISI
I disordini che, partendo dalla Tunisia e dall’Algeria, si sono propagati a macchia d’olio in varie parti del mondo arabo culminando nella crisi egiziana, e che molti hanno liquidato come semplici “rivolte del pane” o sommosse legate alla povertà, traggono la loro origine senza dubbio dal recente aggravamento della situazione economica mondiale, ma soprattutto da ragioni profonde che risalgono ad almeno vent’anni fa (anni che diventano oltre trenta, per quanto riguarda l’Egitto).

Diversi analisti hanno paragonato la recente ondata di ribellione nel mondo arabo alle rivoluzioni democratiche che ebbero luogo nell’Europa dell’Est dopo il crollo del muro di Berlino. Il vento della democrazia che spirò impetuoso in quei paesi negli anni ’90 – favorito dal sostegno americano ed europeo, nella speranza di sottrarre alleati a una Russia che emergeva estremamente indebolita dal crollo del blocco sovietico – non raggiunse invece il mondo arabo, che pure era rimasto coinvolto in pieno nella precedente Guerra Fredda.

Nella regione araba il crollo del muro di Berlino portò al verificarsi di una “rivoluzione incompiuta” in molti di quei paesi: la progressiva riconversione da un’economia socialista e statalista ad un’economia di mercato di ispirazione liberista, non accompagnata però da una liberalizzazione politica e da una democratizzazione dei regimi al potere.

Il fallimento del processo di pace israelo-palestinese che era fiorito negli anni ’90 (all’indomani del crollo del Patto di Varsavia) con la Conferenza di Madrid e i successivi accordi di Oslo, concorse al permanere di una situazione di “conflitto congelato” nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente, ovvero di uno scenario da “guerra fredda” che a sua volta contribuì a far rimanere “ingessate” le strutture politiche dei regimi arabi.

Gli Stati Uniti preferirono anteporre la “stabilità” alla democrazia, alleandosi con le élite politiche locali che sostenevano tali regimi, considerate un baluardo contro l’Islam politico anti-occidentale ed anti-israeliano. La timida politica di democratizzazione portata avanti collettivamente dall’Europa nei confronti dei paesi della sponda sud del Mediterraneo fu ben presto abbandonata dai singoli paesi membri dell’UE, che si posero nel solco degli USA.

Si instaurò così un rapporto di “mutuo ricatto” tra questi regimi e gli Stati occidentali, in base al quale i primi si impegnavano ad aprire i loro paesi all’economia di mercato ed a mantenere la “stabilità” regionale combattendo l’islamismo militante e adottando politiche condiscendenti in merito alla questione israelo-palestinese, mentre i secondi garantivano la legittimazione politica dei primi a livello internazionale.

Tutto ciò ha determinato la sopravvivenza di regimi non democratici ed autoritari nel mondo arabo, i quali al soffocamento delle libertà politiche e individuali hanno affiancato politiche economiche imposte dalla globalizzazione neoliberista, che sono state responsabili dell’inasprimento delle disuguaglianze sociali.

All’arricchimento di èlite affaristiche legate a doppio filo con i regimi al potere ha fatto da contraltare un ulteriore impoverimento delle masse popolari, alle quali sono stati progressivamente sottratti i sussidi alimentari e le altre forme di assistenza sociale che lo stato di ispirazione socialista aveva assicurato in passato.

In Egitto, questo lungo processo iniziò addirittura prima del crollo del muro di Berlino, nella seconda metà degli anni ’70, quando Sadat avviò la liberalizzazione economica del paese stringendo un’alleanza politico-economica con gli Stati Uniti, e firmò la pace con Israele uscendo dal fronte – fino a quel momento unito – dei paesi arabi.
EFFETTI POSITIVI E NEGATIVI DELLA GLOBALIZZAZIONE
A queste ragioni storiche si è aggiunto ultimamente l’aggravarsi della congiuntura economica mondiale. Molti paesi arabi (ad eccezione dei paesi del Golfo) sono tuttora scarsamente integrati con il sistema finanziario globale, ma allo stesso tempo hanno (soprattutto nel Nord Africa) economie fortemente dipendenti dagli scambi nord-sud (nello specifico con l’Unione Europea).

Se ciò ha permesso a molti di questi paesi di evitare gli effetti più catastrofici della crisi finanziaria, non ha però consentito loro di rimanere indenni quando la crisi ha toccato l’economia reale.

Ad aggravare ulteriormente la situazione è stata la crisi alimentare globale degli ultimi anni. In particolare, la produzione mondiale di grano non è stata al passo con l’aumento della popolazione del pianeta. E nel mondo arabo la crescita demografica rappresenta uno dei principali problemi, visto che la sua popolazione è cresciuta di cinque volte nel XX secolo.

Un secolo fa, l’Egitto aveva 20 milioni di abitanti. Attualmente ne ha oltre 80, e (secondo alcune stime dell’ONU) di questo passo ne avrà 120 nel 2050. L’Egitto è considerato allo stato attuale il maggior importatore mondiale di grano (acquistando dall’estero circa il 60% del suo fabbisogno), ma nell’ultimo anno la produzione mondiale ha registrato una crisi determinando un aumento dei prezzi.

Tuttavia, come detto, le ragioni economiche (globali e locali) sono solo una delle concause immediate della crisi manifestatasi in Egitto, in Tunisia ed altrove nel mondo arabo. Ad esse bisogna aggiungere ragioni sociali e politiche, che talvolta variano da paese a paese.

In Egitto, ad esempio, una delle ragioni più immediate che hanno certamente contribuito a far scoppiare la rabbia popolare è stata l’ulteriore compressione dello spazio politico a seguito della decisione del regime di assicurarsi un controllo praticamente assoluto del parlamento. In occasione delle recenti elezioni legislative, svoltesi a cavallo fra novembre e dicembre, il regime ha di fatto estromesso tutti i principali partiti dell’opposizione dalla competizione politica attraverso intimidazioni, arresti e brogli elettorali.

Diversi analisti hanno poi sottolineato che a guidare la sollevazione popolare, sia in Tunisia che in Egitto, è stata la classe media, non le classi più povere. Sebbene vi siano notevoli differenze fra i due paesi – in particolare per quanto riguarda la solidità e il peso percentuale che tale classe ha all’interno della popolazione, e per quanto riguarda il suo livello di istruzione (in tutti questi casi la differenza è a vantaggio della Tunisia) – questo dato accomuna la rivolta tunisina e quella egiziana.

Le rivendicazioni dei manifestanti in entrambi i paesi non si sono limitate alla richiesta di lavoro e di giustizia sociale, ma hanno avuto come tema centrale la democrazia e le libertà essenziali. In Egitto come in Tunisia, le rivolte hanno avuto come elemento cardine l’attivismo dei giovani, che hanno fatto massicciamente ricorso ai moderni mezzi di informazione e di comunicazione, ed in particolare a strumenti come internet e i social network. Al-Jazeera ha avuto un ruolo essenziale nel diffondere le notizie e nel fornire un “collante transnazionale” alle manifestazioni di protesta sorte nei diversi paesi.

Il ruolo centrale che i moderni mezzi di comunicazione hanno avuto in queste proteste di massa da un lato conferma che il mondo arabo, e soprattutto i suoi giovani, si sono appropriati di diversi aspetti della modernità, e che esiste una connessione tra mondo arabo e Occidente (che molti in Europa neanche sospettano) la quale comprende anche il fluire delle idee di democrazia, libertà di informazione, ecc.; dall’altro ha permesso di rinvigorire l’omogeneità e l’interconnessione esistente tra i vari paesi del mondo arabo, confermando che quest’ultimo, sebbene diviso da confini e frontiere, e spezzettato in differenti Stati e realtà nazionali, continua a costituire un’entità culturale e storica che presenta forti elementi di unità, pur nella sua pluralità e molteplicità.
L’ORDINE REGIONALE ARABO E IL DILEMMA AMERICANO
Che le aspirazioni libertarie e democratiche emerse in Egitto, e prima ancora in Tunisia, siano sufficienti a garantire un’effettiva transizione verso la democrazia in questi paesi, resta da vedere. Le forze che vogliono salvaguardare i regimi che li hanno governati per tutti questi anni sono tuttora forti, non solo all’interno dell’Egitto e della Tunisia, ma anche a livello regionale e addirittura internazionale (un discorso, quest’ultimo, che vale soprattutto per l’Egitto, paese che si trova nel cuore stesso del mondo arabo e del Medio Oriente).

Inoltre le aspirazioni democratiche e riformatrici emerse in queste settimane rappresentano solo una delle tendenze attualmente presenti nel mondo arabo. Non bisogna dimenticare che la regione mediorientale è tuttora squassata da drammatici focolai di tensione che vanno dalla questione israelo-palestinese alla crisi libanese, dalla grave situazione irachena alla contrapposizione con l’Iran. Spostandoci nella regione del Corno d’Africa e del Mar Rosso, a questi focolai possiamo aggiungere la secessione del Sudan, la crisi dello Yemen e il disfacimento della Somalia.

Le forze centrifughe e le ingerenze straniere sono molto forti in tutte queste aree di crisi. Le recenti rivoluzioni in Tunisia e in Egitto, affiancate alle crisi a cui abbiamo appena accennato, pongono dunque il mondo arabo di fronte a un bivio, tra rinascita democratica e disintegrazione etnica e settaria, tra l’affermazione di aspirazioni riformatrici e la sopravvivenza di regimi moribondi che favoriscono la conservazione anche a costo della frammentazione.

La prima strada favorirebbe l’unità e il dialogo, l’apertura e la moderazione, la crescita e lo sviluppo. La seconda favorisce la frammentazione e la disintegrazione, l’intransigenza e l’estremismo, la povertà e i conflitti.

L’Egitto, in particolare, riassume in sé entrambe queste possibilità, come la recente esplosione della crisi interconfessionale tra cristiani e musulmani ha ampiamente dimostrato. Tuttavia gli eventi di questi giorni hanno confermato che esistono nel paese forze vitali e riformatrici che, qualora dovessero affermarsi, potrebbero rimarginare ferite come quelle aperte dalle tensioni confessionali attraverso l’affermazione di principi come quello di cittadinanza, di partecipazione democratica, dell’affermazione dello Stato di diritto, e della libertà di espressione e di coscienza.

La possibilità che queste forze vitali e riformatrici prevalgano non dipende tuttavia solo dagli egiziani. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno un’enorme responsabilità di fronte agli eventi a cui stiamo assistendo, una responsabilità resa ancora maggiore dagli errori e dalle colpe che europei ed americani hanno commesso nel passato.

Nei giorni scorsi l’amministrazione americana ha fatto sfoggio di grandi doti di equilibrismo e – a detta di molti, nel mondo arabo – di ipocrisia, chiedendo a un autocrate come Mubarak di farsi promotore di una svolta democratica pur rimanendo al proprio posto. Ora Obama sembra costretto ad aggiustare la rotta, sotto la pressione degli eventi.

Washington, che a parole ha sempre sostenuto i valori di libertà e democrazia, nei fatti ha tradizionalmente appoggiato i regimi dittatoriali del mondo arabo. Del resto, la fedeltà del Cairo è un cardine irrinunciabile per la politica americana in Medio Oriente.

Mubarak è stato un alleato essenziale degli USA, appoggiando la guerra al terrorismo di Bush (compresa la sua irresponsabile e tragica decisione di invadere l’Iraq), adottando una politica accondiscendente in merito al conflitto israelo-palestinese (l’Egitto è uno dei due soli paesi arabi che hanno firmato un trattato di pace con Israele, e la collaborazione di Mubarak è stata essenziale per imporre l’assedio alla Striscia di Gaza governata da Hamas), e appoggiando gli sforzi americani in chiave anti-iraniana.

Infine l’Egitto controlla il Canale di Suez, attraverso il quale passa circa l’8% del commercio marittimo mondiale. Il canale e il vicino oleodotto trasportano più di 4 milioni di barili di greggio al giorno, ovvero il 4,7% della produzione mondiale.

Oltre ad essere legati al regime egiziano da enormi interessi, gli USA devono poi tener conto delle reazioni degli altri loro alleati mediorientali: regimi autocratici al potere in paesi come la Giordania e l’Arabia Saudita assistono con grande nervosismo alle mosse americane in Egitto, chiedendosi se gli Stati Uniti siano pronti a “scaricare” un loro fedele alleato di fronte al verificarsi di rivolte popolari.

Washington si trova dunque in un grave dilemma: da un lato teme che un regime democratico in Egitto potrebbe non essere filo-americano, dall’altro non può permettersi di appoggiare a oltranza regimi dispotici che sconfessano quotidianamente, di fronte a milioni di arabi, i principi di libertà e democrazia che gli USA si vantano di promuovere, e che lo stesso Obama ha “predicato” agli arabi proprio dal Cairo nel suo memorabile discorso del giugno 2009.

Ma ecco un altro paradosso: qualora l’esercito egiziano dovesse adottare misure repressive sparando sulla folla (cosa che per il momento ha dichiarato di non voler fare, riconoscendo anzi la legittimità delle rivendicazioni delle masse manifestanti), di fatto lo farebbe utilizzando armi americane. I carri armati dispiegati nelle strade del Cairo sono carri armati di fabbricazione americana, così come gli aerei militari che hanno sorvolato Piazza Tahrir nel tentativo di intimidire i dimostranti. L’Egitto è infatti il secondo beneficiario di aiuti americani in Medio Oriente dopo Israele, aiuti che in gran parte sono di natura militare, e non vanno certamente a beneficio della popolazione.

(Per inciso, come ha recentemente fatto notare il professore americano Juan Cole, la gran parte di questi finanziamenti, pagati dal contribuente americano, passa in mani egiziane semplicemente per tornare negli USA e finire nelle casse delle compagnie americane produttrici di armi. L’esercito egiziano è infatti un esercito “made in USA”, ed i maggiori beneficiari di questi “aiuti” all’Egitto sono società americane come Lockheed Martin, General Dynamics, Boeing, Raytheon, ecc.)

Ecco dunque un altro motivo per cui, agli occhi di molti cittadini egiziani ed arabi, gli Stati Uniti appaiono in realtà come i principali alleati di Mubarak e degli altri despoti arabi (spesso visti come fantocci al soldo degli USA), e come nemici di fatto della democrazia e della libertà che molti arabi chiedono a gran voce.

Ma è proprio questa la ragione per cui Washington, per non perdere la faccia di fronte ai cittadini egiziani ed alle popolazioni arabe, potrebbe ormai vedersi costretta ad esortare Mubarak a cedere il passo, ad appoggiare la decisione dell’esercito di mostrarsi “amichevole” con i manifestanti, ed a tentare una “transizione morbida” sostenuta dall’esercito e forse guidata dal neo-nominato vicepresidente Omar Suleiman (fedele alleato degli USA), in direzione di un regime che mostri maggiori aperture verso le rivendicazioni del popolo ma che rimanga saldamente filo-americano (e forse non pienamente democratico).

Ben altre sono le speranze delle folle oceaniche che da giorni ormai presidiano il Cairo. Ai fini di una vera evoluzione democratica dell’Egitto, molto dipenderà dagli eventi dei prossimi giorni, e dalla consapevolezza e dalla determinazione del movimento di opposizione popolare egiziano.
GLI INDUGI EUROPEI E LE PAURE DI ISRAELE
Lo stesso dilemma in cui si trova l’amministrazione americana è vissuto in questo momento dai governi europei, i quali per ragioni non troppo dissimili da quelle di Washington (stabilità economica, lotta all’estremismo, contenimento dei flussi migratori) hanno finora preferito anteporre la stabilità di regimi dittatoriali alla democratizzazione del mondo arabo.

Ma, nonostante gli iniziali indugi dei principali paesi europei, quando leader come David Cameron, Angela Merkel e Nikolas Sarkozy si sono finalmente decisi ad esortare Mubarak ad avviare un processo di riforme politiche e di democratizzazione, tali dichiarazioni hanno suscitato enormi timori in un altro paese, che sta assistendo ai recenti sviluppi in Egitto con preoccupazione ancora maggiore di quella mostrata dagli Stati Uniti: Israele.

Tel Aviv si è affrettata a “suggerire” a Washington e alle principali capitali europee di frenare le critiche nei confronti di Mubarak per “preservare la stabilità” nella regione. Il ministero degli esteri israeliano ha inviato direttive alle ambasciate israeliane negli USA, in Canada, in Russia e in diversi paesi europei, in cui si esortava a sottolineare, presso i governi di tali paesi, l’importanza di salvaguardare la stabilità del regime egiziano.

Come si vede, non solo i regimi arabi autocratici, ma anche Israele, e certamente diversi ambienti governativi in America e in Europa, guardano con timore a una possibile transizione dell’Egitto verso la democrazia. Molti, in questi ambienti, ricorrendo a una notevole esagerazione tracciano un parallelo tra l’Egitto di Mubarak e l’Iran dello Shah che nel 1979 cadde preda della Rivoluzione Islamica.

Ma lo “scenario iraniano” appare certamente poco applicabile all’Egitto attuale. I Fratelli Musulmani, il principale movimento islamico del paese, non sono certo paragonabili agli islamici iraniani che nel 1979 presero il potere a Teheran, e sono certamente molto meno anti-occidentali di quanto non siano anti-islamici certi ambienti a Washington e nelle principali capitali europee.

Inoltre, essi hanno avuto un ruolo secondario fino a questo momento nella rivolta popolare, e non rappresentano certamente l’unica forza di opposizione in Egitto, sebbene siano forse maggioritari. Un governo egiziano democratico non mancherebbe di pragmatismo, perfino se fosse guidato dai Fratelli Musulmani (i quali hanno dimostrato di accettare un sistema politico democratico, sebbene debbano ancora fugare alcuni dubbi in materia di minoranze e di parità fra i sessi).

Più problematico sarebbe il rapporto con Israele, ma questo varrebbe anche per un Egitto democratico non guidato dai Fratelli Musulmani, ed in generale per qualsiasi regime democratico che dovesse emergere nel mondo arabo. Da qui l’imprescindibilità e l’urgenza di giungere a una rapida ed equa soluzione del conflitto arabo-israeliano. La risoluzione di tale conflitto è fondamentale per una pacificazione e una democratizzazione del mondo arabo e del Medio Oriente.

E’ essenziale che gli Stati Uniti e l’Europa si rendano conto dell’importanza della posta in gioco in Egitto. Dalla nascita di un Egitto democratico può dipendere il futuro della democrazia nel mondo arabo, e della stabilità e della cooperazione nel Mediterraneo. L’alternativa è la sopravvivenza del dispotismo, il permanere dell’instabilità sociale, l’aggravarsi della frammentazione e della disintegrazione etnica e confessionale nei paesi arabi e nell’intera regione mediorientale.

a cura della redazione di www.medarabnews.com

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