“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

sabato 13 novembre 2010

Il castello rosso e la linea senza legge a Oslo

di Ilaria Lupo

Ramallah, 10 novembre 2010, Nena News - The Red Castle and the Lawless Line è il titolo dell’ esposizione di Decolonizing Architecture – in collaborazione con UNESCO e AlQuds University/Bard Honors College – presentata presso lo Spazio 0047 di Oslo in occasione della Triennale di Architettura.


Un laboratorio pratico e teorico tenuto a Battir in Cisgiordania ha coinvolto architetti, ricercatori e artisti locali e internazionali in un’indagine sulle dinamiche architettonico-urbanistiche legate all’occupazione militare israeliana. Focalizzandosi sul caso specifico di una villa del villaggio minacciata da demolizione a causa della sua posizione geografica (su istanza di un gruppo di coloni), il progetto mira a svelare l’inefficacia di un sistema di divisione territoriale e di termini legislativi basati sul Trattato di Oslo inadeguati alle circostanze attuali.

Il gruppo Decolonizing Architecture, costituito da Alessandro Petti, Sandi Hilal e Eyal Weizman, è attivo in interventi che investigano e destrutturano le logiche colonialiste alla base dello sviluppo architettonico e urbanistico palestinese.

La villa di Battir è collocata sul confine tra le diverse aree provvisoriamente tracciate dal Trattato di Oslo, ovvero area A (sotto controllo palestinese), B (sotto controllo congiunto palestinese e israeliano) e C, zona sotto controllo esclusivamente israeliano, che costituisce più del 60% della West Bank.
A Oslo sono stati presentati i modellini della casa e fumetti d’autore che ne ripercorrono la storia.

Nicola Perugini – architetto e ricercatore – mi ha spiegato le linee e gli obiettivi del progetto, di cui l’esposizione è solo una parte.
La ricerca nasce da una situazione precisa per aprire su una problematica di più ampia portata che va oltre il campo dell’urbanistica e le implicazioni giuridiche del caso – mi spiega Nicola. – Abbiamo sottoposto la questione a un avvocato palestinese del ’48 competente in materia di controversie territoriali, generalmente rinviate a tribunali israeliani (in linea con la normalizzazione ndr). Faremo con lui appello alla Corte Suprema israeliana e alla Corte palestinese. La prassi abituale è quella di trovare un compromesso per ogni situazione che accontenti le due parti, ma questo non è il nostro scopo. L’accordo sul caso specifico non è rilevante per noi, quel che ci interessa è la questione a monte, che formalmente è legislativa ma nella sostanza ha una natura politica.

Il progetto mira infatti a spingere i termini della disputa ai loro estremi per rivelarne l’insolubilità e di conseguenza anche l’inefficacia del Trattato e il suo anacronismo. La domanda principale è “A quale tribunale rinviare una contesa che si riferisce al contenuto stesso della Green Line?”
Decolonizing Architecture rileva un quarto spazio geografico, un territorio extra-territoriale, legalmente indefinito e ora posto inevitabilmente come spazio politico.

Il tracciato della Linea Verde è esemplare nella sua arbitrarietà, che parte dal fatto di essere stata tracciata su carta con una matita ad olio, con il risultato di avere un’estensione topografica che varia dai 5 fino agli 80 metri. Il paradosso è evidente e affrontarlo significa sollevare delle questioni fondamentali che purtroppo sono ancora oggi latenti. La logica della normalizzazione di fatto prevale, il che significa che l’Occupazione ha la meglio sulle risoluzioni internazionali.
Il caso è chiaramente insolubile se non altro perché non ne è definita la competenza giuridica. A chi spetta la decisione? Il vuoto legislativo è sintomo dell’incuranza delle Nazioni Unite, o per meglio dire della loro debolezza che perdura rispetto alle imposizioni di Israele.

Il progetto è illustrato dal fumettista palestinese Samir Harb, che introduce la dimensione narrativa e offre una prospettiva geografica su questa storia paradossale, inclusa in un percorso di ricerca di Decolonizing Architecture sull’Area C e sulla relazione tra spazio geografico e Diritto in Palestina.
Il passaggio di autorità sull’area C dagli israeliani (ICA) ai palestinesi (PA) previsto dagli Accordi del 1993 è stato congelato da Israele nel 2000. L’acceso dei Palestinesi all’area C è limitato o addirittura impedito (per presenza di basi militari o colonie illegali) e le autorizzazioni di residenza, costruzione o ristrutturazione spettano all’autorità israeliana e sono quindi per la maggior parte negate. Solo nell’ultimo anno centinaia di immobili in area C sono stati demoliti con la conseguente evacuazione di migliaia di cittadini palestinesi dal loro stesso territorio – ad alto tasso di povertà secondo i rapporti delle Nazioni Unite, carente tra l’altro di risorse primarie come cibo e acqua. Si tratta di una zona sottoposta a una legislazione flessibile e contingente, in cui i palestinesi sono privati di ogni tutela anche per quanto riguarda il Diritto Internazionale.

Il progetto di Battir è il pilota di una serie di casi che intendiamo sollevare per fare breccia in un sistema inefficace – continua Nicola – Spingerlo fino ai suoi limiti teorici è per noi un modo di far implodere le categorie di Oslo e far emergere la necessità di riconsiderarne i parametri. Oslo è in una situazione di stallo e le sentenze ne saranno inevitabilmente la controprova. –

- In questa parte di mondo nulla di quello che appare sulla carta corrisponde alla realtà – conclude Samir Harb. Nena News

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