“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

mercoledì 24 novembre 2010

Sionismo. Un tabù depassè

di Sergio Cararo

La discussione e la denuncia del sionismo non è oggetto di scontro politico e polemiche solo in Italia ma lo è da tempo anche nelle sedi internazionali.

Il 16 dicembre 1991, in un clima politico internazionale, caratterizzato dalla dissoluzione dell’URSS e dall’esito della prima Guerra del Golfo contro l’Iraq, con due righette che recitavano testualmente – “L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decide di revocare la determinazione contenuta nella propria Risoluzione 3379 del 10 novembre 1975” – veniva approvata una nuova risoluzione – la 4686 – che revocava una precedente risoluzione dell’ONU, quella appunto che riteneva il sionismo una forma di razzismo. Caso forse unico nella storia, l’ONU abrogava una sua stessa risoluzione.
Nel novembre del 1975 era infatti stata approvata dall’Assemblea Plenaria delle Nazioni Unite una Risoluzione - la 3379 – che condannava il sionismo come forma di razzismo. A questa conclusione l’Assemblea Plenaria dell’ONU era arrivata sulla base della condanna di quella che definiva come “la scellerata alleanza tra il razzismo sudafricano e il sionismo” e faceva riferimento alla Dichiarazione delle Nazioni Unite che auspica “l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e di qualsiasi dottrina di differenziazione o superiorità razziale”. La Risoluzione faceva poi riferimento alla Risoluzione nr.77 dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) e alla dichiarazione dei Paesi Non Allineati del 30 agosto 1975. E’ sulla base di questi principi che “l’Assemblea Plenaria delle Nazioni Unite stabilisce che il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”.

Il contesto politico della risoluzione dell’ONU contro il sionismo era completamente diverso da quello del 1991 ed era caratterizzato dalla vittoria del movimento anticolonialista (erano stati liberati dai portoghesi nel 1974 anche Angola, Mozambico e Guinea Bissau-Caboverde, il Vietnam si apprestava a vincere la sua lotta di liberazione dagli USA).

Paradossalmente una parte della comunità politica internazionale - quella alleata di Israele – cerca di vendere alla storia che la risoluzione del 1991 avviene in un quadro di vittoria della libertà e della democrazia, mentre quella del 1975 era il risultato di pregiudizi ideologici e predisposizioni autoritarie.

Per tutti coloro che hanno abdicato ad ogni anelito di giustizia sulla situazione in Medio Oriente o di solidarietà verso il popolo palestinese, l’abrogazione della risoluzione dell’ONU che equiparava il sionismo ad una ideologia razzista, segna il via libera ad un radicale cambio di campo. Il passaggio è avvenuto prima attraverso l’assunzione di una posizione equidistante tra le ragione di Israele e quelle dei palestinesi e poi – inevitabilmente – con l’assunzione della strategia israeliana e sionista contro i palestinesi come unica soluzione possibile per la pace in Medio Oriente.

Gli ultimi nove anni sono stati emblematici di questo passaggio di campo di un intero ceto politico e intellettuale nella complicità con Israele e contro i diritti dei palestinesi.

Da questo punto di vista si è rivelata corretta la previsione secondo cui i primi che sarebbero penalizzati dagli effetti degli attentati dell’11 settembre sarebbero stati i palestinesi e il primo ad avvantaggiarsene sarebbe stato il progetto colonialista israeliano.

E’ indicativo come il tentativo di riaffermare che il sionismo fosse una forma di razzismo si era riaffacciato come terreno di lotta politica a livello internazionale proprio nei giorni precedenti l’11 settembre del 2001 con la Conferenza dell’ONU sul razzismo a Durban nel 2001. I documenti prodotti dalla Conferenza di Durban – con il ritiro e l’opposizione frontale di USA e Israele e in seguito dell’Unione Europea che non riuscì a svolgere alcuna mediazione – contenevano una condanna forte dell’apartheid israeliano. Le parole usate per quei documenti potevano essere anche forti ma i contenuti erano sostanzialmente corretti.

Otto anni più tardi, nella Conferenza Durban II tenutasi a fine aprile 2009 a Ginevra, il boicottaggio degli USA e dell’Unione Europea, ha fatto sì che nella risoluzione finale sugli impegni dell’ONU contro il razzismo – pur largamente condivisibile – venisse fatto sparire ogni riferimento alla politica di apartheid israeliana e al sionismo come invece era accaduto a Durban I.

In tempi recenti personalità come l’attuale Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, hanno riaffermato l’equiparazione tra la posizione antisionista con i peggiori pregiudizi antiebraici. Non solo. Ci dicono anche che non possiamo adottare la categoria dell’antisionismo quando si critica la politica colonialista dello Stato di Israele o se ne mette in relazione la nascita nel 1948 con la Nakba e la pulizia etnica contro la popolazione palestinese.

Secondo l’ex presidente statunitense Bush senior ad esempio, chi contesta lo Stato di Israele negherebbe il processo di formazione di una identità politica e nazionale ebraica che si è realizzata attraverso l’attuazione del progetto sionista con la nascita dello Stato di Israele. Dunque secondo questa tesi, chi contesta Israele o il sionismo non può che essere inevitabilmente anche antiebraico.

Da ciò deriva quella equiparazione per noi inaccettabile tra antisionismo e antiebraismo che ci viene ricordata spesso anche dal Presidente Napolitano, il quale fu il dirigente del PCI che nel 1987 sdoganò la ripresa delle relazioni bilaterali con Israele oltre a quelle già avviate nell’ambito dell’Internazionale Socialista.

Il sionismo nasce dentro un contesto ideologico e politico europeo caratterizzato dalle occupazioni coloniali che attiveranno anche le potenze europee minori come l’Italia o il Belgio. E dunque poteva essere un progetto coloniale diverso dagli altri?

Il sionismo è una dottrina politica nazionalista, colonialista ed escludente che aveva certo la peculiarità di nascere e via via di imporsi dentro le comunità ebraiche perseguitate, soprattutto nell’Europa centrale ed orientale e si impone anche rispetto ad altre correnti ideologiche progressiste e antinazionaliste presenti nelle comunità ebraiche in Europa. Anzi ad un certo punto ne assume alcune aspirazioni fino a lasciarsi configurare – come molti altri progetti nazionalisti – anche come una opzione progressista rispetto all’arretratezza delle forze produttive in Medio Oriente. Ma questo inganno crolla immediatamente nel 1948 quando il sionismo si fa Stato con la nascita di Israele attraverso la pulizia etnica di una parte della Palestina storica. Molti hanno dovuto attendere fino alla guerra dei Sei Giorni nel 1967 per riconoscere che la visione progressista del sionismo era in realtà un inganno che celava la natura di un progetto colonialista. Altri avevano compreso questo inganno già dal suo presupposto: quello che la Palestina fosse “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Dunque un presupposto che negava in partenza l’esistenza di un altro popolo – quello palestinese – e che costruirà su questa negazione il progetto colonialista che sta operando fino ai nostri giorni in modo sempre più brutale e lampante.

E’ emblematico come questa visione di Israele senza palestinesi sia penetrata profondamente anche nella comunità intellettuale italiana. Due esempi?

1) La Fiera del Libro di Torino dedicata a Israele occultando completamente la vita, la cultura e l’identità dei palestinesi e che abbiamo contestato efficacemente

2) La serata di sostegno a Israele organizzata da Fiamma Nirestein, nella quale si sono alternati politici di destra o di sinistra o scrittori “di destra e di sinistra allo stesso tempo” come Saviano, i quali in nessun passaggio dei loro interventi hanno ricordato l’esistenza dei palestinesi.

La realtà ci dice che rimane tutt’oggi impossibile parlare di Israele senza metterla in relazione – in positivo o in negativo - con la questione palestinese, eppure abbiamo visto i palestinesi scomparire come problema politico, come presenza culturale, come insediamento umano. Al massimo compaiono come problema umanitario, negandone però ogni identità, legittimità o aspettativa sul piano politico.

Come vediamo il negazionismo non è un demone che agisce solo contro la memoria dello sterminio nazista in Europa, ma agisce anche come presupposto e parametro della visione sionista della situazione mediorientale, una visione che viene condivisa anche nel nostro paese da buona parte del ceto politico e dalla comunità intellettuale

E’ evidente come tale questione possa e debba diventare materia feconda per il confronto e il dibattito in sede storica e politica. Purtroppo dobbiamo verificare come sul dibattito storico in materia, pesino ancora fortissimi tabù, anatemi e forti dosi di autocensura da parte degli storici e degli intellettuali progressisti, i quali pur di non trovarsi coinvolti in polemiche feroci (spesso con conseguenze e ostracismi niente affatto irrilevanti), rinunciano del tutto a discutere e ad animare la discussione sul sionismo. Da questo punto di vista ci auguriamo anche che il seminario di oggi incoraggi ad aprire finalmente questa discussione “liberata” sul sionismo in tutti gli ambiti politici e accademici. A questo ci auguriamo si riveli utile il libro “Palestina: una terra cancellata dalle mappe. Dieci domande sul sionismo” che raccoglie gli interventi del convegno di un anno fa proprio su tale questione.

Su questo è importante precisare due aspetti non secondari:

1) E’ inaccettabile che qualcuno – chiunque esso sia – venga messo in galera per le cose che scrive o che dice. Una tesi sbagliata o anche aberrante si smantella decostruendola e neutralizzandola sul piano politico e culturale e non su quello giudiziario.

2) E’ inaccettabile che questa battaglia per la libertà di ricerca storica parta da gente come Faurisson o dai nostalgici del nazifascismo. Nessuno deve finire dietro le sbarre per un libro ma si tenga a dovuta distanza dalle nostre sedi di elaborazione e confronto. I conti con gli ideologi del nazifascismo li ha regolati la resistenza partigiana in tutta Europa e qualcosina abbiamo cercato fare anche noi in anni più recenti.

Il processo storico ci riporta dunque ai giorni nostri e alle polemiche e agli scontri che periodicamente riemergono sulla situazione mediorientale.

Ultima in ordine di tempo è l’insistenza dell’establishment israeliano teso ad imporre ai palestinesi (ma anche alla comunità internazionale) il compimento del progetto sionista ovvero il riconoscimento del “carattere ebraico dello Stato di Israele”. E’ evidente come si tratti di una forzatura inaccettabile sia all’interno che all’esterno di Israele, in quanto indica un sistema che contiene in sé il demone della discriminazione verso i “non ebrei” o verso gli ebrei israeliani non ortodossi. Da questo punto di vista tale progetto appare ancora più grave dentro la stessa Israele che nei rapporti con i Territori Palestinesi amministrati dall’ANP o con la Striscia di Gaza governata da Hamas. Non solo. Il progetto di Israele come “stato ebraico” è del tutto confacente alla tesi dei “due popoli per due stati”, un progetto che la realtà si è incaricata di rendere impraticabile non solo sul piano politico ma anche materiale, in quanto la terra, l’acqua, le risorse disponibili non bastano più per fare due Stati degni entrambi di questi nome su quella terra. Non solo. La legittimazione dell’unicità di Israele come stato ebraico non può che acutizzare la pulizia etnica contro i palestinesi che vediamo già all’opera nei quartieri di Gerusalemme Est, nei centri urbani e nei quartieri dei palestinesi del ’48 rimasti dentro i confini israeliani.

Questo processo di espulsione dei palestinesi da Gerusalemme e da Israele viaggia parallelamente all’espansionismo delle colonie israeliane nella Cisgiordania palestinese. Il transfer cioè l’espulsione dei palestinesi comincia a delinearsi molto chiaramente con l’obiettivo dichiarato di mettere la comunità internazionale di fronte ad un nuovo possibile fatto compiuto: la negazione della possibilità della nascita di uno stato palestinese indipendente e l’eventuale assunzione in carico dei palestinesi della Cisgiordania alla Giordania e dei palestinesi di Gaza all’Egitto. In questo modo “il popolo senza terra” si approprierebbe “della terra senza popolo” dando compimento al presupposto dell’ideologia sionista. L’epopea coloniale statunitense si è sviluppata esattamente così: sottraendo terra e risorse agli abitanti originari e sostituendoli con coloni provenienti dal resto del mondo.

La realtà sul campo ci dice che forse l’unica soluzione per interrompere il piano colonialista del sionismo e democratizzare seriamente la regione è quella dello Stato Unico per ebrei e palestinesi - che è poi il tema della discussione di un incontro come quello di oggi - il che rappresenta un orizzonte strategico che comincia a farsi largo sia dentro settori della resistenza palestinese (minoritari) che dentro settori (ultraminoritari) della società progressista israeliana. E’ un orizzonte che dobbiamo incoraggiare perché al momento è l’unico che consente di guardare avanti.

(intervento al seminario di Roma “Uno stato unico, laico democratico nella Palestina storica” organizzato da ISM con la presenza di Ghada Kahrmi)

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