Nonostante il divieto internazionale, la tortura e i trattamenti crudeli, disumani e degradanti sono largamente praticati in gran parte del mondo in nome della difesa dello Stato
di Valentina Spada e Ilaria Camplone*
Uno studio, contenuto in una tesi di laurea in medicina presso il Centro di Salute Internazionale (CSI) [1] dell’Università di Bologna, ha preso in considerazione il caso di Israele e il Territorio Palestinese Occupato.Le Nazioni Unite [2] definiscono la tortura “ogni atto che provochi dolore e sofferenza, fisiche o psichiche, inflitto intenzionalmente” a scopo estorsivo (ottenere informazioni), punitivo, intimidatorio o per qualsivoglia motivo basato su forme di discriminazione, da parte di un funzionario pubblico, che può esserne autore materiale, istigatore o spettatore acquiescente. Queste pratiche, che rappresentano una delle violazioni più esplicite e palesi dei diritti umani, rappresentano una costante quotidiana nella vita della popolazione palestinese e sono l’espressione non solo di violenza fisica diretta ma anche di quella indiretta o “strutturale” [3]. Nonostante le dimensioni del fenomeno siano difficilmente quantificabili, le Nazioni Unite sono consapevoli del suo verificarsi e sollecitano sistematicamente Israele a svolgere indagini sui casi denunciati e a evitare di creare “eccezioni” alle regole internazionali [4].
In tale contesto la ricerca del CSI non soltanto analizza le conseguenze fisiche e mentali della tortura ma tenta di individuare le “cause delle cause”, mettendo in luce soprattutto i meccanismi, i processi e gli attori attraverso cui queste pratiche si possono realizzare. In particolare essa si sofferma sul ruolo dei medici, che finiscono per rappresentare una “rete di sicurezza” per i perpetratori e un punto di controllo fondamentale dell’ingranaggio che rende possibile la tortura. Allo stesso tempo, i medici costituiscono un gruppo con autonomia professionale, con un mandato chiaro sancito da codici nazionali e internazionali, da convenzioni, da un ethos e da un’etica che promuove la centralità del paziente e proibisce loro di partecipare a questo tipo di pratiche.
Come rilevano le analisi delle testimonianze raccolte negli anni da diverse organizzazioni locali, le torture e i maltrattamenti dei prigionieri palestinesi avvengono soprattutto durante situazioni di detenzione e di interrogatorio. Una delle stime più attendibili proviene dalla organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem che afferma che circa l’85% degli interrogati dai servizi segreti interni israeliani (lo Shabak o General Security Service) ha subito una qualche forma di tortura [5]. Una percentuale assolutamente preoccupante, soprattutto se si considera l’elevato numero di detenuti palestinesi (150.000 dal 1990 al 2006; 6891 effettivi a dicembre 2009 [6]) e la facilità con cui si può essere arrestati e imprigionati senza processo per lunghi periodi per motivi politici, legati alla “sicurezza”, spesso senza accuse provate (le cosiddette “administrative detentions“).
Uno studio recente di B’tselem presenta i dati relativi a un campione di 73 detenuti i analizzando sia i regimi di interrogatorio routinari (Tabella 1), sia i metodi definiti “speciali”, non sistematici ma comunque non infrequenti (Tabella 2). Va sottolineato che le procedure di interrogatorio possono essere anche molto lunghe (una media di 35 giorni) [7] e che gli abusi, le deprivazioni e i maltrattamenti iniziano al momento dell’arresto e proseguono per tutto il periodo di detenzione, spesso combinati e in maniera del tutto funzionale a fiaccare lo spirito del prigioniero.
Tabella 1
Metodi ROUTINARI | % |
Isolamento dal mondo esterno durante tutto/la maggior parte del periodo di interrogatorio | 68 |
Detenzione in condizioni di confinamento solitario e deprivazione sensoriale durante tutto/ la maggior parte del periodo di interrogatorio | 88 |
Sonno disturbato | 45 |
Scarsa qualità del cibo | 73 |
Ammanettamenti protratti in una posizione dolorosa definita shabah | 96 |
Ispezioni corporali in condizioni di nudità | 29 |
Insulti e altre umiliazioni | 73 |
Minacce | 64 |
Detenzione in sezioni con informatore | 82 |
Tabella 2
METODI SPECIALI | % |
Privazione del sonno | 21 |
Pestaggi violenti | 23 |
Ammanettamenti dolorosi | 7 |
Spintonamenti violenti | 8 |
Torsione violenta del collo | 11 |
Posizione della “rana” | 4 |
Flessione forzata della schiena | 7 |
Ciò che appare chiaro è il carattere sistematico di questi metodi, reso possibile da un processo di “burocratizzazione della tortura”: pur variando nel corso dei decenni i gradi e le forme, la politica ufficiale e non ufficiale di Israele ha sempre legittimato, attraverso linee guida e autorizzazioni, l’uso di metodi di tortura fino a che queste sono divenute pratiche di routine negli interrogatori dei prigionieri palestinesi.
In Israele, i medici entrano a contatto con i prigionieri palestinesi al momento dell’arresto da parte dello Shabak e in occasione di visite mediche, prima, durante e dopo gli interrogatori. Al regime di interrogatorio visto sopra vengono affiancati dei metodi “speciali” caratterizzati da un significativo uso di violenza diretta e le cui conseguenze sono difficilmente ignorabili dall’occhio medico: a questo proposito, nel rapporto del Public Committee Against Torture in Israel (Ticking Bombs [8]) vengono raccolte le testimonianze agghiaccianti di nove vittime e sottolineati ruolo e responsabilità del personale sanitario.
Dall’analisi delle testimonianze, dei report e delle interviste emergono le responsabilità di questi medici, i quali:
accertano lo stato di salute dei detenuti in modo da modulare le tecniche di interrogatorio;
- non sembrano essere consapevoli dell’esistenza del problema della partecipazione medica nella tortura;
- non riconoscono i segni fisici e psichici della tortura sui loro pazienti;
- non attuano procedure terapeutiche adeguate;
- non documentano né certificano le avvenute torture;
- non proteggono attivamente le vittime;
- non propongono alcuna azione volta a contrastare queste pratiche e non si oppongono al sistema che le permette.
A livello individuale si è cercato di capire chi sono e come lavorano questi medici. Il personale sanitario appartiene all’Esercito, al Corpo Penitenziario o a quello della Polizia. Lo Shabak, che interroga i suoi prigionieri in sezioni detentive isolate, necessita tuttavia di servizi medici supplementari e continuativi per assistere, trattare e accertare lo stato di salute dei palestinesi sotto interrogatorio. Pertanto, lo Shabak retribuisce direttamente i sanitari che assistono all’interrogatorio, creando, dal punto di vista del medico, una situazione cosiddetta di “dual loyalty“, cioé una condizione di conflitto tra la lealtà dovuta al paziente detenuto e quella dovuta all’istituzione per cui lavorano.
Sulla condizione di “dual loyalty” pesano particolarmente la dimensione sociale e istituzionale di questi medici: molti di loro, infatti, sono russi, immigrati di recente, provenienti dalle classi sociali più basse, con difficoltà linguistiche, non completamente integrati nella comunità medica e desiderosi di farsi accettare socialmente. Essi non sono iscritti all’Associazione Medica Israeliana, (IMA, l’equivalente albo dei medici italiano) e la prigione è l’unico contesto lavorativo in cui è consentito loro di lavorare senza licenza. Ciò significa che sono ricattabili e quindi non disponibili ad entrare in contrasto con l’istituzione a difesa del paziente. Una scelta di questo tipo, infatti, metterebbe a serio rischio la loro posizione lavorativa e sociale.
Le Associazioni mediche nazionali hanno storicamente svolto un ruolo fondamentale quando hanno saputo evitare la retorica e proporre iniziative pratiche. Non sembra questo il caso dell’IMA: essa tuttavia, pur offrendo una “hot line” per denunciare le violazioni, non dimostra di indagare approfonditamente le denunce, di sanzionare i colpevoli, di offrire alternative o supporto legale, economico e sociale ai medici che si rifiutano di collaborare in queste pratiche e, oltretutto, nega l’esistenza del problema, arrivando fino a tentare di screditare chi provi a combattere il fenomeno [9].
L’ultima cornice di riferimento presa in considerazione è stata quella sociopolitica. Stanley Cohen, sociologo ebreo, sottolinea come in Israele (analogamente ad altri contesti) la risposta alla tortura delle autorità sia strutturata su tre filoni [10]: uno negazionista (“Non c’è tortura in Israele”, i fatti sono semplicemente falsi, le accuse frutto di macchinazioni, fantasie e disinformazione); uno mistificatorio (“Non è tortura, ma pressione fisica moderata”, i fatti sono reinterpretati, diversamente ricollocati) e uno giustificatorio (“Il nostro è uno stato di eccezione”, gli atti proibiti sono giustificati legalmente e moralmente in nome della necessità a difendersi). Accanto a questi, si pone “a trincea” l’inevitabilità dell’occupazione, le cui conseguenze (tra cui la tortura) sono certamente dolorose ma purtroppo inevitabili se si vuole difendere Israele. Per proteggere l’“insider” dunque è necessario eliminare l’“outsider”, il Nemico, quell’Altro che diventa solo un oggetto pericoloso che è possibile torturare in nome di una salvezza interna. Secondo quest’ottica, Israele e la Palestina sembrano così essere un emblema del panorama globale: “lo stato di emergenza”, la “sicurezza pubblica” richiedono mezzi e strumenti diversi nella “guerra contro il terrore”, rendendo giustificabile la tortura così come le bombe su Bagdad, Falluja e Gaza.
La partecipazione dei medici nella tortura non nasce quindi isolata rispetto al contesto sociale: la società cerca nella medicina gli strumenti e le conoscenze per realizzare i suoi fini e la medicina si mette al suo servizio. Come fa notare Gianni Tognoni, il medico, in quest’ottica, non fa nulla di “inumano, né degradante”, anzi, adempie a “un compito oneroso ma dovuto, quello di proteggere gli umani da coloro che ne rappresentano la degradazione, l’inumano” [11].
La complessità dei meccanismi che rendono possibile la tortura e la partecipazione dei medici in essa mostra la necessità di interventi distali, a livello della comunità internazionale, che costringano gli Stati che la compongono a rendere conto del proprio operato. Allo stesso tempo, la pratica della tortura richiama la comunità medica a un’ “etica della responsabilità”: ai singoli medici chiede di estendere il proprio mandato oltre l’esame obiettivo e la prescrizione della terapia, reclamando “politicità nella tecnicità”; alle associazioni mediche di rifuggire l’ipocrisia, di imporre doveri e tutelare i diritti dei propri membri; alle istituzioni formative di insegnare agli studenti a leggere le tensioni morali insite nel lavoro medico; alla ricerca, infine, di cambiare linguaggio e smascherare i nomi tecnici dietro cui si nascondono iniquità e discriminazioni.
*Valentina Spada e Ilaria Camplone, Centro di Salute Internazionale (CSI) dell’Università di Bologna
Bibliografia
- The Centre for International Health of the University of Bologna
- United Nations. Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment. Visitato il 05.02.10.
- Stefanini A. In Palestina non uccidono soltanto le bombe. Saluteinternazionale, 08.01.2010. Visitato il 12.02.10.
- Si noti per esempio le valutazioni dell’UN Committee Against Torture (CAT), Concluding observations of the Committee against Torture: Israel, 23 June 2009, (CAT/C/ISR/CO/4). Visitato il 05.02.10; oppure il Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967, John Dugard, 21 January 2008 (A/HRC/7/17), visitato il 05.02.10.
- B’Tselem, Routine Torture: Interrogation Methods of the General Security Service. Jerusalem 1998.
- B’Tselem and HaMoked, Absolute Prohibition – The Torture and Ill-Treatment of Palestinian Detainees. Jerusalem 2007.
- Ibidem
- PCATI, Ticking Bombs- Testimonies of Torture Victims in Israel. Jerusalem 2007.
- Yudkin JS. The responsibilities of the World Medical Association president. Lancet 2009;373:1155-6.
- Cohen S. The social response to torture in Israel in Marton R e Gordon N in Torture, Medical Ethics and The case of Israel. London: Zed Books, 1995.
- Tognoni G. Medici, Medicina e Tortura. In: La tortura oggi nel mondo. Associazione Internazionale Basso, Edup.2006.
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