“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

martedì 20 maggio 2008

Ricordare il 1948 e guardare al futuro


di Ali Abuminah
Sulla Nakba, un commento di Ali Abuminah, co-fondatore di Electronic Intifada e autore di «One Country: a bold proposal to end the israeli-palestinian impasse». Questo commento, in una versione più ampia è apparso sul Sydney Morning Herald, ed è stato tratto da ZNet.

In questo mese Israele celebra il sessantesimo anno della sua fondazione. Ma confuso alle festività, che comprendono anche visite di personalità e politici internazionali, c’è un profondo senso di disagio. Israele ha nel suo armadio molti scheletri che ha cercato in tutti i modi di nascondere. E per il proprio future nutre un’ansia talmente profonde da far dubitare a molti israeliani che sarà possibile celebrare il suo ottantesimo compleanno. L’Israele ufficiale continua a essere completamente dimentica del fatto che la sua nascita è inestricabilmente legata alla quasi distruzione di una vibrante società e di una vivace cultura palestinese esistite fino a quel momento. E’ un problema comune per gli stati di coloni. Stati uniti, dove vivo, si sono resi conto che perfino il passaggio di secoli non può assolvere una nazione dal confronto con i crimini commessi al momento della sua fondazione. Come ha notato lo storico israeliano, e ostinato sionista, Benny Morris nel 2004, «uno stato ebraico non sarebbe potuto nascere senza lo sradicamento di 700 mila palestinesi. E quindi era necessario sradicarli». Morris prosegue: «Ci sono circostanze della storia che giustificano la pulizia etnica». Se uno, però, non è pronto a giustificare apertamente la pulizia etnica, ci sono solo due opzioni: negare la storia e trovare conforto in una versione edulcorata, che dipinge Israele come un insieme di coraggiosi pionieri, ispirati dalla divinità, in un deserto vuoto di indigeni e minacciato da nemici esterni; oppure affrontare le conseguenze e appoggiare l’enorme sforzo di cambiamento necessario a produrre la pace e la giustizia. I palestinesi in tutto il mondo stanno commemorando l’inizio della nostra continua tragedia, ma siamo anche pronti a guardare al futuro. Siamo a un importante punto di svolta, nel quale due cose stanno accadendo contemporaneamente. Primo, nonostante le rituali dichiarazioni di appoggio internazionale, la soluzione dei due stati è scomparsa, mano mano che i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza vengono rinchiusi in riserve murate, circondate dagli insediamenti isralieni e attraversate da strade riservate ai coloni – una situazione che somiglia ai bantustan del Sudafrica dell’apartheid. Secondo, nonostante gli sforzi israeliani per mantenere sotto controllo i palestinesi, la popolazione palestinese è sul punto di superare i cinque milioni di ebrei israeliani. Oggi ci sono 3 milioni e mezzo di palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, e c’è un milione e mezzo di palestinesi che sono formalmente cittadini israeliani. A volte definiti «arabi israeliani», i palestinesi in Israele sono sempre più insofferenti del loro status di cittadini di seconda classe, in uno stato ebraico che li considera come una quinta colonna ostile. Mentre i palestinesi israeliani chiedono uguali diritti in uno stato per tutti i suoi cittadini, alcuni politici israeliani ebrei minacciano di espellerli in Cisgiordania, a Gaza o ancora più lontano. Le proiezioni demografiche ufficiali dicono che i palestinesi, a causa del loro tasso di natalità più alto, nel 2025 supereranno gli israeliani ebrei di due milioni e sebbene pochi nella comunità internazionale se ne siano resi conto, una separazione chirurgica tra queste due popolazioni è diventata impossibile. I leader israeliani si rendono conto della situazione. Il primo ministro Ehud Olmert a novembre scorso ha detto: «Se la soluzione dei due stati dovesse fallire, e ci trovassimo di fronte a una campagna stile Sudafrica per l’uguaglianza dei diritti, allora, in quel momento, lo stato di Israele sarebbe finito». La campagna è già cominciata, man mano che sempre più palestinesi si rendono conto che avere uno stato è irrealistico e discutono se adottare la soluzione di uno stato solo, che possa offrire a israeliani e palestinesi uguali diritti in una terra condivisa. La buona notizia è che la fine dell’apartheid non ha causato il disastro che molti temevano ma è stata anzi l’inizio di una nuova era per tutti.
da Electronic Intifada http://electronicintifada.net/, http://electronicintifada.net/v2/article9556.shtml

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