“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

lunedì 10 maggio 2010

Droni, piloti in guerra con il joystick

Gli americani in Afghanistan e Iraq, gli israeliani a Gaza

Questo articolo riguarda l’Afghanistan non il Vicino Oriente ma l’uso dei droni (gli aerei senza pilota e guidati elettronicamente a distanza) è stato fatto in abbondanza dagli Stati Uniti anche in Iraq, e occasionalmente in Yemen, nonché da Israele contro i palestinesi a Gaza. Per questa ragione la Nena-News ha ritenuto opportuno tradurre in italiano e pubblicare questo interessante servizio del Los Angeles Times dello scorso febbraio sulla guerra nel terzo millennio versione USA, che assomiglia sempre più a un gioco elettronico ma che resta una guerra vera con morti e feriti tra civili innocenti.


David Zucchino, Los Angeles Times 27 feb
Le sfide psicologiche legate all’utilizzo dei droni sono uniche: i «piloti» dicono che nonostante le distanze, l’input video dà loro una sensazione più vera di ciò che accade a terra di quanto non avrebbero da un aereo da guerra che vola a tutta velocità.

Dal suo appartamento a Las Vegas, Sam Nelson è andato al lavoro in macchina, attraversando il deserto lungo la ventosa autostrada 95 diretta verso Indian Springs. Durante il viaggio ha acceso il canale radio XM e ha tentato di mettere da parte tutte le cose della vita quotidiana—le bollette, l’affitto, il bucato— e di prepararsi al lavoro.

Nelson, un capitano dell’Air Force, si è diretto verso il suo turno giornaliero di un nuovo tipo di lavoro, un lavoro che potrebbe richiedere l’uccisione di un altro essere umano lontano 7.500 miglia. Seduto su una poltrona imbottita dentro un basso edificio marrone chiaro, ha pilotato (a distanza) un aereo drone pesantemente armato che planava sopra l’Afghanistan. Finito il suo turno, ha guidato 40 minuti indietro attraverso il deserto per arrivare di nuovo al trambusto e ai neon di Las Vegas.

I piloti e gli equipaggi dei droni si trovano all’avanguardia di una rivoluzione; una rivoluzione sulla quale i militari e servizi segreti USA hanno puntato pesantemente. Si è spedito d’urgenza il primo Predator armato in Afghanistan solo quattro giorni dopo l’attacco dell’11 settembre 2001. Oggi l’Air Force statunitense spende quasi 3 miliardi di dollari all’anno per comprare e utilizzare i droni e addestra i piloti a far volare più droni che aerei con il pilota a bordo.

La richiesta è così grande che si addestrano anche non-piloti come ingegneri civili e polizia militare. Sono in uso più di 7.000 droni di tutti i tipi sopra l’Iraq e l’Afghanistan.

Il Pentagono ha adattato tecnologie in origine commerciali come la televisione satellitare e il video digitale per dare ai piloti, alle truppe di combattimento e ai comandanti al quartier generale uno sguardo in tempo reale del nemico sugli schermi del computer.

Questo è il combattimento nell’età dei videogiochi e della realtà virtuale. Anche se i piloti dei droni operano dall’altra parte del mondo, sono impegnati in un combattimento letale come un qualsiasi pilota a bordo un aereo.

Il pilota di un drone può aprire fuoco su un insorto che si rifugia nelle colline afghane e stare a casa in tempo per un barbecue in giardino. In solo un’ora o due il pilota può passare da un litigio con la moglie/il marito ad una conversazione molto tesa via radio con un soldato sotto tiro.

«Durante il viaggio per arrivare qua, ti prepari per il combattimento in volo», dice il colonnello in pensione Chris Chambliss, che fino all’estate scorsa comandava le operazioni dei droni dalla base Air Force Creech, il centro di comando per sette basi dell’Air Force negli Usa dove si fanno volare droni sopra l’Iraq e l’Afghanistan. «E durante il viaggio verso casa in macchina, ti prepari per quella parte della tua vita che sarà la partita di calcio».

Gli equipaggi dei droni non mettono a rischio la loro vita. Invece, gestiscono fiumi di video e dati. Con riunioni prima e dopo le loro missioni, le loro giornate lavorative si allungano normalmente fino a 10 o 11 ore. Molti sono piloti militari con esperienza ma gli operatori delle videocamere sono molto più giovani, spesso hanno solo 19 o 20 anni, e nuovi allo stress del combattimento.

Così come le truppe in Iraq o Afghanistan, gli equipaggi dei droni hanno accesso a psicologi e medici. Sono stati istruiti a stare attenti gli uni agli altri riguardo lo stress. Le sfide psicologiche sono uniche: i piloti dicono che nonostante le distanze, l’input video dà loro una sensazione più intima di ciò che accade per terra di quanto non avrebbero da un aereo di guerra che vola a tutta velocità.

Dopo il periodo passato nel Nevada a far volare i droni, che l’esercito chiama “remotely piloted aircraft” (“veicolo aereo pilotato a distanza”), Nelson ora fa parte di un equipaggio a Kandahar, in Afghanistan. Gli equipaggi situati lì e in Iraq, spesso lottando contro venti forti e temperature gelide, controllano i droni durante il decollo e l’atterraggio, per poi passarli (eletronicamente, ndt) alle squadre basate negli Stati uniti.

Quando stava ancora nel Nevada, un giorno, appena giunto per il suo turno, Nelson ha ascoltato un briefing riguardante il campo di battaglia, e poi ha aperto la porta del suo ufficio, la stazione base di controllo.

Si è seduto nella poltrona della cabina di pilotaggio, conosciuto dai piloti come il «Naugahyde Barcalounger», di fronte alle schermate del computer che riportavano immagini dal vivo dalle montagne dell’Afghanistan, a colori durante il giorno e in bianco e nero durante la notte. Ha scritto messaggi in chat che lo connettevano a numerosi militari e analisti in tutto il mondo, riusciva a consultare cartine geografiche, immagini satellitari e rapporti dei servizi segreti. Parlava per radio con i comandanti a terra e le truppe, che vedevano le stesse immagini dal vivo sui loro portatili e radio a mano.

Seduto accanto a Nelson, che ha pilotato aerei cargo C-5 in Iraq prima di passare ai droni, c’era il sergente Jim Jochum al controllo della videocamera. Un coordinatore dei servizi segreti, incaricato di analizzare le immagini, era nella stanza accanto.

Quando sono impegnati in una missione, i responsabili dei droni spesso dimenticano di stare nel Nevada. Il capitano Mark Ferst, un ex-pilota di B-52, ha detto che i piloti si sentono più coinvolti nel combattimento di quanto non si sentissero nelle cabine di pilotaggio vere e proprie. “Quando volavo sui B-52 ero a 30.000- 40.000 piedi dalla terra (10.500-14.500 metri ndr) e non si vedevano le bombe cadere”, ha detto Ferstl. “Qui si sta molto più vicini alla realtà del volo o così sembra”.

Il colonnello Dale Fridley, un cinquantenne ex-pilota di caccia F-15, ha detto che uno suoi dei momenti più gratificanti alla guida dei droni è avvenuto senza sparare un colpo. Dopo che un veicolo militare si era guastato nel deserto della provincia afghana di Helmand, una roccaforte Taleban, il resto del convoglio è tornato alla base. I soldati bloccati sono riusciti a dormire mentre il drone di Fridley sorvegliava dall’alto, fino all’arrivo della squadra di soccorso.

«E questo», ha detto Fridley, «è qualcosa che non sarebbe mai e poi mai stato possibile prima».

(red) Nena-News (la traduzione dall’inglese è di Elena Hogan)

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