“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

lunedì 13 aprile 2009

“SPARARE E PIANGERE”, CONFESSIONI DI SOLDATI ISRAELIANI VISTE DA UN REFUSENIK

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Le storie agghiaccianti dei giovani soldati di ritorno da Gaza aprono uno spiraglio su una guerra essenzialmente “off limits” per i media occidentali, a cui l'esercito israeliano ha vietato l'ingresso a Gaza. In una recente inchiesta di ha'aretz, i soldati raccontano di rastrellamenti e stragi di civili inermi, vecchi, donne e bambini uccisi a sangue freddo. Amira Hass, corrispondente da Gaza, scrive del ritrovamento di un documento dal titolo incredibile: “Regole d'ingaggio: sparate anche sui soccorsi.” L'uccisione di decine di paramedici palestinesi durante la guerra non sarebbe dunque un incidente. Abbiamo chiesto una spiegazione ad un refusenik israeliano: Itai, un dottorando di fisica all'Università di New York. Itai era un soldato dell'IDF da quattro anni, quando nel 2002 decise di non prendere più parte alle attività dell'esercito di Occupazione, e si rifiutò di servire nei Territori. La sua reazione alle confessioni dei soldati non è di sorpresa: è sempre lo stesso spunto per entrare nella dinamica nazionale dello “sparare piangendo.”

Per il suo rifiuto a servire, Itai finì in prigione per la prima volta durante l'operazione Defensive Shield nel 2002. Fu scarcerato e poi, per il protrarsi della sua obiezione, finì in prigione ancora nel 2003. Itai non si dichiara un pacifista. Si rifiuta di prendere parte alla difesa di Israele perché è uno stato razzista: il sionismo è in sé un movimento razzista. Ci spiega che le confessioni dei soldati riguardo a quelli che si configurano come crimini di guerra sarebbe parte dello stesso copione cominciato quarant'anni fa.

“Soldati che sparano e piangono. Sparano ma soffrono interiormente perché uccidere è difficile. Soldati che quindi soffrono, si umanizzano, arrivano a trasformarsi nelle vittime, per il peso del conflitto interiore. Il termine “sparare piangendo” è stato coniato da Amos Oz nel suo libro “La parola dei soldati,” uscito subito dopo la guerra del '67. Su ispirazione del Labor Party, Oz creò il mito del soldato israeliano fiero, ma allo stesso tempo in cerca della sua anima, in crisi esistenziale per le terribili azioni a cui la difesa del suo paese in guerra lo costringe. Nel libro, discussioni di riservisti dei kibbutzim, sulla stesso tono di quelli che si sentono oggi. I “good old boys” allora erano per la maggior parte nelle unità di combattimento, che ora invece sono piene di coloni. Spero che il libro di Oz non sia tradotto in Italia, è propaganda nazionalista. L'immagine che ne scaturisce è di un'elité militare che vuole essere ricordata possente ma riflessiva anche nel momento della vittoria.

“Qual è il meccanismo innescato dallo “sparare piangendo”?
“Oz e questo tipo di intellettuali sono strumentali nello sforzo di rappresentare Israele come una entità occidentale. Ma ovviamente non lo è: una democrazia occidentale, ma per soli ebrei, uno stato sociale, ma per soli ebrei. È dunque un'entità coloniale. Dato che la disponibilità di informazioni, quella sì in Israele è pari ai paesi occidentali, è ancora più grave girare la testa altrove. Oz offre l'autocompiacimento: soffriamo commettendo atrocità e discutiamo di questo problema, dunque siamo occidentali: L' “israelità” sarebbe in realtà europea. Migliora le relazioni internazionali: potete dialogare con noi israeliani, perché siamo come voi.”

In che contesto sono state raccolte queste recenti discussioni dei soldati?
“I soldati di oggi sono la diretta continuazione della “brava gente” dei kibbutzim. È avvenuto in una scuola dove ti preparano per servire nell'esercito, prima di arruolarti. I coloni sono famosi per queste scuole, ma ce ne sono di secolari, non religiose. Questi ragazzi provengono da famiglie ricche e sono l'elité dell'esercito, per esempio piloti dell'aviazione. Si tratta di una rimpatriata, i soldati già usciti dalla scuola, che sono stati a Gaza, tornano per parlare della loro esperienza con i giovani che si stanno per arruolare. Chi racconta di aver ucciso una donna a sangue freddo non è pieno di rimpianto ma dice, questo è quello che è successo lì e che toccherà anche a voi. C'erano giornalisti nella stanza, quindi un'inchiesta ha riportato le testimonianze. E ora la sinistra si mostra scandalizzata mentre il capo di stato maggiore dichiara di non credere alle testimonianze e che l'IDF resta sempre l'esercito più etico del mondo. Lo stesso copione.”

Può portare a qualcosa questa inchiesta di ha'aretz, potrà cambiare qualcosa in Israele?
“Fa sempre bene parlarne, i giornalisti che scrivono su ha'aretz lo fanno perché sono giustamente indignati, una delle poche voci fuori dal coro. Ma se la storia viene poi usata, come sta succedendo, per ribadire la moralità dell'esercito israeliano e che si tratta di piccoli anche se gravi errori, allora è “business as usual.” L'unica speranza è che il mondo si stanchi di vedere gli israeliani giocare la carta del “siamo anche noi europei” ancora e poi ancora. Che Israele diventi il prossimo Sudafrica: boicottaggio dall'estero, opposizione attiva all'interno, che chieda alla popolazione israeliana di scegliere da che parte stare. Gli israeliani ora hanno la botte piena e la moglie ubriaca: sono un movimento coloniale, ma inscenano una democrazia occidentale. Una cosa che mi ha colpito è stata l'ultima manifestazione a cui sono stato a San Francisco, contro la guerra a Gaza: sulla metropolitana era pieno di gente normale che andava alla manifestazione, oltre agli studenti, anche nonne con bambini e impiegati. In America sempre più persone si rendono conto di cos'è veramente lo stato d'Israele.”

Il documento sulle regole di ingaggio, scoperto da Amira Hass in una delle postazioni dell'esercito israeliano a Gaza, riporta che i soldati potevano sparare sui soccorsi, quando lo ritenevano una tattica necessaria. Chi è responsabile di questi ordini?
“Un tempo le regole di ingaggio era una pratica ben definita, ma fin dalla prima intifada divennero un'iniziativa del comandante locale dell'unità di combattimento, un luogotenente: non si può quindi accusare nessun generale più in alto nella catena di comando di aver dato questi ordini. Questo apre una finestra sul funzionamento dell'esercito, sul campo tutto è permesso, per evitare che muoiano soldati israeliani. Ed ecco gli scudi umani, i cecchini nelle aree densamente abitate. Un altro fenomeno sono le magliette che i soldati si fanno stampare al ritorno da Gaza. Al centro del mirino una donna incinta e la scritta: uno sparo, due morti. Oppure un bambino nel mirino e la scritta: non scappare, morirai stanco. Queste magliette sono non la causa del problema, ma il sintomo che il livello di brutalità nell'esercito è umanamente inaccettabile.”

Portavi anche tu queste magliette quando eri nell'esercito?
“L'unica maglietta che conservo da quegli anni è quella che mi hanno dato in prigione. Quelle magliette di cattivo gusto le portano in molti. I soldati israeliani ne hanno bisogno perché portare camicie brune o camicie nere rischierebbe di metterli a disagio.”

http://www.altrenotizie.org/alt/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=98543&mode=thread&order=0&thold=0

Nessun commento:

blogmasters g.40, gino pino, Ter