“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

sabato 5 settembre 2009

La guerra silenziosa

di Slavoj Zizek*

Con l'occupazione dei territori palestinesi, Israele punta a cancellare la presenza araba dalla Cisgiordania. Un vero e proprio caso di pulizia etnica.

Il 2 agosto 2009, dopo isolato una parte del quartiere arabo di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est, la polizia israeliana ha sfrattato due famiglie palestinesi dalle loro case. In tutto più di cinquanta persone. I coloni ebrei hanno avuto il permesso di trasferirsi nelle abitazioni sgomberate. La polizia ha agito in base a una sentenza della corte suprema israeliana, ma le famiglie arabe vivevano nelle loro case da più di cinquant'anni. Questo sgombero - che in via piuttosto eccezionale haattirato l'attenzione della stampa internazionale - fa parte di un processo molto più vasto e largamente ignorato, ma ancora in pieno svolgimento.

Sei mesi fa, il 1 marzo 2009, è stato diffuso un rapporto secondo cui il gover-no israeliano sta pianificando la costruzione di 70mila nuove unità abitative negli insediamenti ebraici della Cisgiordania occupata. Se questo piano sarà realizzato, altri 300mila coloni si insedieranno nei territori palestinesi. Questo non solo renderebbe impossibile la nascita di uno stato palestinese stabile, ma sarebbe anche un problema per la vita quotidiana dei suoi abitanti. Dopo la pubblicazione del rapporto, un portavoce del governo israeliano si è subito affrettato a ridimensionarne il contenuto, sostenendo che il piano non è ancora definitivo: la costruzione di nuove abitazioni negli insediamenti, ha affermato il portavoce, richiede l'approvazione del ministro della difesa e del primo ministro. Quindicimila nuove case, però, sono già state autorizzate. E quasi 20mila \ delle unità abitative progettate si trovano in insediamenti lontani dalla "linea verde" che separa Israele dalla Cisgiordania, cioè in aree che il governo israeliano in futuro non potrà continuare a controllare. La conclusione è ovvia: mentre a parole accetta la soluzione dei due stati, nei fatti Israele è impegnata a creare le condizioni per renderla impossibile. Il simbolo di questa politica è il muro che separa i villaggi dei coloni dalle città palestinesi. In un angolo della Cisgiordania, sul versante israeliano della barriera è dipinta l'immagine del paesaggio oltre il muro: solo natura, prati e alberi. Uno spazio vuoto, vergine, pronto per essere colonizzato. Cos'è questa se non una vera e propria pulizia etnica?

A tratti questo processo è camuffato da operazione culturale. Il 28 ottobre 2008 la corte suprema israeliana ha concesso al Centro Simon Wiesenthal il permesso di costruire il Centro per la dignità umana - Museo della tolleranza, progettato già da molti anni, in un'area contesa nel centro di Gerusalemme. Frank Gehry (chi, se non lui?) progetterà il vasto complesso formato da un museo, una sala espositiva per bambini, un teatro, un centro convegni, una biblioteca, sale per conferenze e ristoranti. La missione del museo - secondo le autorità - è promuovere la civiltà e il rispetto tra le componenti dell'ebraismo e tra gli individui di fedi diverse. L'unico ostacolo al nuovo museo, superato grazie alla decisione della corte suprema, era che l'area in cui verrà costruito ha ospitato fino al 1948 il principale cimitero musulmano di Gerusalemme. Per questo la comunità islamica si è appellata alle autorità, sostenendo che la costruzione del museo avrebbe profanato il luogo dove sono sepolti i musulmani uccisi durante le crociate del dodicesimo e tredicesimo secolo.

La tolleranza intollerante.

Questa piccola incongruenza rivela il vero obiettivo nascosto dietro la facciata del nuovo polo multiconfessionale: è un luogo che celebra la tolleranza, ma costruito ignorando le vittime di un'altra intolleranza. Come dire: per creare uno spazio di vera tolleranza ci vuole un po' di intolleranza. Come se non bastasse, come se fosse necessario ripetere un gesto per chiarirne il messaggio, a Gerusalemme c'è un progetto ancora più ambizioso. Israele sta portando avanti senza troppo chiasso un piano di sviluppo da cento milioni di dollari nel cosiddetto "bacino sacro", il sito appena fuori le mura della città vecchia dove sorgono alcuni tra i più importanti monumenti religiosi e civili della città. L'obiettivo è rafforzare lo status di Gerusalemme come capitale. Secondo il New York Times del 10 maggio 2009, "il progetto, in parte appaltato a un gruppo privato che sta anche comprando in blocco proprietà palestinesi per fame insediamenti ebraici a Gerusalemme est, non ha suscitato praticamente obiezioni o critiche né a livello internazionale né tra l'opinione pubblica locale". Il piano prevede che le discariche di rifiuti e le aree abbandonate della zona siano bonificate e trasformate in parchi e giardini lussureggianti. Già oggi i visitatori possono passeggiare lungo i sentieri appena tracciati e godersi il magnifico panorama, con tanto di cartelli e illustrazioni che ricordano le tappe più significative della storia ebraica. Ovviamente per consentire la riqualificazione dell'area molte case palestinesi "abusive" saranno rase al suolo. Il bacino sacro si estende su un'area ricca di luoghi sacri e tesori ancora nascosti appartenenti alle tre principali religioni monoteistiche. La tesi ufficiale, dunque, è che la valorizzazione della zona porterà vantaggi a tutti - ebrei, musulmani e cristiani - perché servirà ad attirare nuovi visitatori m un luogo di straordinario interesse cultura-le troppo a lungo trascurato.

Tuttavia, come ha osservato Hagit Ofran del movimento pacifista israeliano Peace now, in realtà il piano punta a creare "un parco turistico ideologico, che consoliderà il predominio ebraico sull'area". Raphael Greenberg dell’ università di Tel Aviv è ancora più esplicito: "La sacralità della città di David è un invenzione recente: un rozzo amalgama di storia, nazionalismo e sentimenti pseudo religiosi. Il passato è usato per negare diritti e allontanare chi segue altre religioni». Il progetto servirà a creare un altra grande meta di pellegrinaggio, uno spazio interconfessionale pubblico sotto il dominio e la protezione di Israele.

Cosa significa tutto questo? Per cogliere la vera dimensione di un evento a volte basta stabilire un legame tra due notizie apparentemente diverse: il significato emerge dal loro collegamento, come una scintilla che si accende per un cortocircuito. Lo stesso giorno in cui i mezzi d'informazione hanno svelato il rapporto sul piano edilizio israeliano, il 2 marzo, Hillary Clinton ha condannato il lancio di missili da Gaza, dichiarando: "E evidente che nessuna nazione, Israele compresa, può restare a guardare mentre il suo territorio e il suo popolo subiscono attacchi missilistici".

Perché, allora, i palestinesi dovrebbero restare a guardare mentre si vedono sottrarre, giorno dopo giorno, il territorio della Cisgiordania?

Le armi della burocrazia

Quando i pacifisti israeliani presentano il conflitto con i palestinesi in termini neutrali e simmetrici, riconoscendo che nell'uno e nell'altro campo ci sono estremisti che rifiutano la pace, dovremmo porci una semplice domanda: cosa succede davvero in Medio Oriente quando non ci sono avvenimenti di rilievo a livello politico o militare, cioè attacchi militari attentati o negoziati? La risposta è: una lenta e incessante opera di occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania. Il graduale strangolamento dell'economia dei palestinesi, la parcellizzazione della loro terra, la costruzione di nuovi insediamenti, le pressioni sugli agricoltori per convincerli ad abbandonare i campi: fanno parte di un processo sostenuto da una ragnatela kafkiana di leggi e regolamenti.

Nel libro “Palestina borderline: storie da un'occupazione quotidiana” (Isbn 2009) Saree Makdisi scrive che l’occupazione israeliana della Cisgiordania e prima di tutto burocratica, anche se a gestirla sono i militari: i suoi principali strumenti sono i certificati di proprietà, i documenti di residenza, i permessi. È questo controllo sulla vita quotidiana ad assicurare la lenta, ma costante espansione di Israele. I palestinesi hanno bisogno di un permesso per qualunque cosa: per spostarsi conia famiglia, coltivare la terra, scavare un pozzo, andare al lavoro, a scuola, in ospedale. Ai palestinesi nati a Gerusalemme è negato il diritto di vivere nella loro terra, la possibilità di lavorare, di costruirsi una casa, di guadagnarsi uno stipendio. Spesso i palestinesi descrivono la Striscia di Gaza come "il più grande campo di concentramento del mondo". Nel corso dell'ultimo anno, questa definizione si è avvicinata pericolosamente alla verità. È questa la realtà che rende le preghiere per la pace oscene e ipocrite.

Lo stato d'Israele è impegnato in un lento e invisibile processo, ignorato da tutti i mezzi d'informazione: un giorno il mondo si sveglierà e si accorgerà che non esiste più una Cisgiordania palestinese e che quella terra è ormai PALESTINAN FREE, cioè libera dalla presenza palestinese. E potrà solo rassegnarsi alla nuova realtà. La mappa della Cisgiordania palestinese, del resto, somiglia già a un arcipelago diviso in mille frammenti.

Legali o illegali?

Negli ultimi mesi del 2008, quando gli attacchi dei coloni in Cisgiordania contro gli agricoltori palestinesi sono diventati quotidiani, Israele ha cercato di frenare gli eccessi. In alcuni casi la corte suprema ha perfino ordinato l'evacuazione degli insediamenti illegali. Ma come hanno notato molti osservatori, queste misure non sono efficaci. La politica a lungo termine di Israele è completamente diversa, e viola nettamente i trattati internazionali firmati dal suo stesso governo. La risposta dei coloni illegali alle autorità israeliane è più o meno la seguente: "Che diritto avete di condannarci? In fondo facciamo le stesse cose che fate voi, solo in modo più esplicito". "Siate pazienti", risponde lo stato israeliano, "non abbiate fretta. Stiamo facendo esattamente quello che fate voi, ma in modo più discreto e accettabile".

È la stessa storia che si ripete dal 1949: Israele accetta le condizioni della comunità internazionale, ma fa affidamento sul fatto che i piani di pace non funzioneranno. I coloni ricordano il personaggio di Brunilde nell'ultimo atto della Valchiria di Wagner, quando afferma che, difendendo Siegmund contro gli ordini di Wotan, in realtà sta realizzando il desiderio a cui il dio era stato costretto a rinunciare per le pressioni esterne. Allo stesso modo, i coloni illegali stanno semplicemente realizzando i piani a cui il governo ha dovuto rinunciare sotto la pressione della comunità internazionale. Lo stato d'Israele condanna le violenze dei coloni, ma promuove nuovi insediamenti in Cisgiordania e continua a strangolare l'economia palestinese.

Uno sguardo alla mappa di Gerusalemme est, dove i palestinesi sono ormai accerchiati e costretti a vivere in spazi sempre più ristretti, chiarisce ogni dubbio. La condanna della violenza dei coloni fa passare in secondo piano il vero problema: quello della violenza di stato. E la condanna degli insediamenti illegali punta a far dimenticare l'espansione di quelli legali.

È qui che si scopre la doppiezza della tanto osannata imparzialità della corte suprema israeliana: pronunciandosi di tanto in tanto a favore dei palestinesi, e dichiarando illegale la loro espulsione, i giudici garantiscono la legalità di tutte le altre occupazioni. A scanso di equivoci, va precisato che tener conto di tutto questo non implica in nessun modo un atteggiamento di comprensione verso gli atti di terrorismo. Al contrario, fornisce l'unico presupposto per condannarli senza ipocrisia.

*SLAVOJ ZIZEK è un filosofo e studioso di psicanalisi sloveno. Il suo ultimo libro è: In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale (Ponte alle Grazie 2009)

da INTERNAZIONALE 28 agosto 2009

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