“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

martedì 8 settembre 2009

A SCUOLA DI "DEMOCRAZIA" IN ISRAELE


ISRAELE INSEGNA
Anche nell'istruzione distribuzione di risorse ineguale, e iniqua.

Nella parte Est della capitale «sacra e indivisibile» di Israele mancano mille aule e la metà non rispetta gli standard minimi di sicurezza. Per i bimbi palestinesi (5mi
Gerusalemme l'indivisibile separata anche nelle scuole
La denuncia in un rapporto di due associazioni ebraiche

di Michele Giorgio
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090905/pagina/09/pezzo/259143/

Unita con la forza e divisa nella distribuzione delle risorse, a cominciare da quelle per l'istruzione. E' questa la Gerusalemme che Israele si è unilateralmente proclamato sua «capitale sacra ed indivisibile». I palestinesi sotto occupazione nel settore arabo (Est) della città ricevono una frazione minima degli investimenti comunali, pur pagando le tasse come gli israeliani nel settore ebraico (Ovest), e corrono il rischio costante di vedersi cacciar via dalla Città Santa se non rispettano i criteri rigidissimi fissati dal ministero dell'interno per poter conservare la residenza. Il primo settembre, con la riapertura delle scuole per i ragazzi israeliani e palestinesi, è l'occasione annuale per rendersi conto delle differenze enormi negli investimenti che l'amministrazione municipale israeliana compie nelle due parti della città.
«Vi auguro di diventare tutte madri della pace. Se le madri sono istruite, anche i loro figli lo saranno. Vogliamo che tutto il paese sia ben istruito, senza differenze tra i sessi, di razza e di fede», ha proclamato il presidente israeliano Shimon Peres visitando il primo settembre l'istituto scolastico al Mamuniya per ragazze palestinesi di Sheikh Jarrah. Ha poi aggiunto che «ebrei e arabi devono avere il diritto di costruire secondo il loro bisogni». Mentre parlava a poche decine di metri di distanza dalla scuola i coloni israeliani continuavano a «ristrutturare» le abitazioni palestinesi di Gerusalemme Est, che nelle settimane passate hanno occupato con la forza, e l'aiuto della polizia, lasciando in strada altre due famiglie.
La Gerusalemme dei diritti per tutti di cui parla Peres semplicemente non esiste. Un rapporto pubblicato qualche giorno fa, in anticipo sull'inizio dell'anno scolastico, da due associazioni ebraiche per la tutela dei diritti civili, Acri e Ir Shalem, dimostrano che il gap esistente tra le scuole israeliane e quelle palestinesi continua ad allargarsi.
A Gerusalemme Est mancano circa mille aule e la metà di quelle esistenti non rispettano gli standard minimi sanitari e di sicurezza. Almeno 5mila bambini palestinesi non frequentano la scuola (molti altri l'abbandonano dopo pochi anni) e il comune non sembra far nulla di concreto per portarli in aula. «Eppure basta fare un giro per i mercati della città o prestare attenzione ai semafori per vederli portare sulle spalle cassette colme di frutta e verdura o vendere accendini e gomme da masticare», dice al manifesto il consigliere comunale del Meretz (sinistra sionista) Meir Margalit, attivista della lotta contro la demolizione delle case palestinesi. «Il comune - aggiunge - dovrebbe rispettare la legge sulla scuola dell'obbligo e assicurare alle famiglie palestinesi più povere l'aiuto necessario per poter mandare i figli a scuola, invece non muove un passo per ragioni ideologiche e politiche. Semplicemente agli amministratori israeliani non importa nulla del futuro dei bambini palestinesi, loro lavorano solo per gli ebrei perché gli arabi devono pagare le tasse, stare buoni e non aprire bocca». Le stesse statistiche del comune evidenziano che a Gerusalemme Est il 67% delle famiglie vive sotto la soglia della povertà.
Secondo dati riferiti dal quotidiano Haaretz, per un bambino palestinese vengono spesi annualmente 557 shekel (poco più di 100 euro) mentre un israeliano 2.373 (440 euro). «I palestinesi sono doppiamente penalizzati: dal comune e dalla situazione di conflitto», spiega ancora Margalit. «Le scuole della zona Ovest godono anche di generose donazioni da parte di importanti istituzioni ebraiche mentre quelle palestinesi non hanno alcun aiuto. Nessun ricco saudita, ad esempio, accetterà mai di donare soldi per scuole palestinesi versandoli nelle casse del comune di Gerusalemme, che rappresenta l'occupazione israeliana del settore arabo della città».
Il comune di Gerusalemme, da parte sua, riferisce di aver costruito nella zona Est 248 aule nell'ultimo triennio ma lo scorso anno l'allora ministro dell'istruzione Yuli Tamir aveva dovuto ammettere che «c'è un vuoto creato dall'abbandono di 40 anni». Intanto molti dei circa 94mila studenti palestinesi di Gerusalemme devono adattarsi a seguire le lezioni in aule di appena 12 metri quadrati, facendo doppi e tripli turni in classi di 35-40 alunni. «E' una situazione impossibile, spesso anche le condizioni minime di sicurezza non sono assicurate in scuole dove si muore dal freddo d'inverno e di caldo già all'inizio della primavera», denuncia un ricercatore palestinese, Ahmad Laban. «Gli studenti non hanno a disposizione computer, non conoscono palestre, giardini e altre strutture di ricreazione dove poter gioire oltre a seguire le lezioni. I nostri ragazzi non hanno modo di vivere l'istituzione scolastica», aggiunge.
Il sospetto di molti a Gerusalemme Est è che il comune stia di fatto spingendo la maggioranza dei palestinesi verso le scuole private. Già oggi, chi può permetterselo, paga 500 dollari l'anno (le famiglie ricche al mese) e iscrive i figli in istituti cristiani e islamici, ben lieti di impartire una educazione rigorosamente religiosa a tanti studenti. Sono già oltre 30mila ma il loro numero cresce di pari passo col crollo progressivo della scuola pubblica.


RAZZISMO
Studenti falascia respinti per «gap»

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090905/pagina/09/pezzo/259142/
«Bureaucratic mix-up», un pasticcio burocratico. Con questa curiosa espressione Ynet, il sito del più venduto dei quotidiani israeliani, Yediot Ahronot, qualche giorno fa spiegava la decisione di tre scuole ebraiche della città di Petah Tikva di rifiutare l'ammissione a decine di studenti «falascia», ebrei di origine etiope, a causa di un presunto «gap culturale» impossibile da recuperare. Curiosa ma non sorprendente in un paese dove la stampa (e non solo) chiama «transfer», trasferimento, la pulizia etnica a danno dei palestinesi. In tale contesto il razzismo diventa inevitabilmente un «pasticcio burocratico». Ancora una volta la comunità dei «falascia» è vittima di un caso di razzismo da parte di altri ebrei israeliani. E nonostante le assicurazioni date dal ministero dell'istruzione, 16 degli studenti respinti dalle scuole religiose non hanno partecipato ai primi giorni di scuola. D'altronde la storia dei «falascia» in Israele non è mai stata facile, nonostante i massicci investimenti statali per la loro integrazione. Il rabbinato ne ha riconosciuto l'ebraicità solo dopo lunghe esitazioni e non sorprende che la Shuvu, una delle scuole religiose disposte ad accogliere gli etiopi, abbia chiesto a cinque studenti il «certificato di conversione all'ebraismo». Richiesta che persino il liberal Haaretz definisce «spiacevole incidente».


RICERCA DEL TAUB CENTER - L'avanzata dell'integralismo religioso e il progressivo arretramento del sistema educativo pubblico israeliano
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090905/pagina/09/pezzo/259141/

La corsa dei genitori, soprattutto quelli arabi, all'istruzione privata
Sullo sfondo del nuovo anno scolastico in Israele non ci sono solo le proteste degli insegnanti, precari e non, o i casi sempre più frequenti di discriminazioni razziali. Quest'anno la riapertura delle scuole è stata preceduto da uno studio sulle statistiche del ministero dell'istruzione svolta dal Taub Center for Social Policy Research di Gerusalemme. La ricerca ha messo in evidenza che quest'anno il 48% del totale degli studenti israeliani si è iscritto alle scuole ebraiche ultraortodosse (haredi) oppure in quelle arabe, statali e private. Dieci anni fa erano il 39%. Una crescita elevata dovuta all'aumento, in questi dieci anni, del 10% della popolazione scolastica araba israeliana e del ben 51% degli scolari provenienti da famiglie religiose ultraortodosse. A questi dati si aggiungono l'aumento delle scuole religiose statali (8%) di fronte ad una diminuzione del numero delle scuole statali «laiche», dove comunque l'insegnamento della religione e dei testi sacri è sempre stato un caposaldo.
I dati indicano il progressivo arretramento, per motivi diversi, del sistema educativo israeliano che pure all'estero gode di un'ottima reputazione. Se le università sono a livelli di eccellenza, le scuole sembrano materializzare le tendenze più preoccupanti che si manifestano nella società, senza dimenticare le storiche discriminazioni alle quali sono soggetti i palestinesi con cittadinanza israeliana per il fatto che non sono riconosciuti come minoranza nazionale. Di fatto, indicano i dati del Taub Center, il 50% degli ragazzi israeliani riceverà una istruzione di livello inferiore, sicuramente poco moderna. Le scuole ebraiche ultraortodosse continuano a fondare i programmi di studio sulla Torah e il Talmud e poco, praticamente nulla, sulla storia (ad eccezione di quella sacra), l'arte, la geografia, la filosofia, la musica, la matematica e l'informatica. Da parte loro gli studenti arabi sono le vittime dirette di un sistema scolastico che li vede destinatari di una frazione minima delle risorse ingenti indirizzate verso le scuole ebraiche, statali e private. Non a caso ai test psicotecnici alla fine della scuola media inferiore il risultato degli arabi israeliani è inferiore del 14% a quello dei loro coetanei ebrei.
Di fronte a ciò, è cominciata la corsa di molti genitori, soprattutto di quelli arabi con qualche possibilità economica, verso la scuola privata. Sin dalla fondazione dello Stato di Israele il sistema educativo privato, semi-ufficiale ma riconosciuto, ha sempre accolto una fetta significativa della popolazione scolastica del paese. Per i palestinesi spesso è stata una scelta obbligata di fronte a programmi scolastici statali concepiti per diluire se non azzerare l'identità della minoranza araba (circa il 20%). Scuole private, gestite quasi sempre da ordini religiosi cristiani (ma oggi aumentano gli istituti ad orientamento islamico) che hanno garantito, entro i limiti imposti dallo Stato, la tutela della cultura, delle tradizioni e della storia della comunità araba. Con gli anni queste scuole private hanno raggiunto, in non pochi casi, livelli di eccellenza tanto elevati che sono arabe un terzo delle migliori scuole di Israele, soprattutto nell'insegnamento delle lingue di base, arabo ed ebraico, e di quelle straniere, in particolare inglese e francese. Non mancano peraltro «sorprese». Si scopre infatti che alcune famiglie ebree hanno iscritto i loro figli nei licei privati arabi.
Il professor Chaim Adler, dell'Università ebraica, intanto lancia l'allarme sul declino della scuola pubblica: «Ormai nel sistema educativo statale (superiore) entrano solo studenti che (negli anni precedenti) avevano ottenuto risultati modesti perchè i migliori vengono assorbiti in gran parte dalle scuole private». (mi.gio.)

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