“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

martedì 8 giugno 2010

Israele Stato terroristico


di Cinzia Nachira

L’assalto portato dalle truppe d’élite della marina militare israeliana contro la nave ammiraglia della Freedom Flotilla e alle altre cinque navi, in rotta verso Gaza assediata, ha due possibili definizioni, entrambe adeguate: terrorismo di Stato e pirateria internazionale.


Ciò che non può sorprendere è che Israele faccia ricorso a queste due pratiche: fin da prima della sua creazione, all’epoca delle milizie della Haganah negli anni ’30, i gruppi dirigenti sionisti hanno abituato il mondo alla loro disinvoltura e arroganza.

Operazione “Vento dal cielo”

L’operazione militare era pianificata da giorni e nei dettagli. Non si tratta di un errore, “uso sproporzionato della forza” o, ancora più ipocritamente, di “eccesso di difesa”.

Quando la stampa israeliana annunciava l’arrembaggio alla flottiglia nessuno poteva mettere in dubbio la serietà del rischio.

Ma nessuno poteva prevedere il mélange devastante di stupidità e arroganza.

Anche gli alleati degli israeliani pensavano che la prudenza avrebbe prevalso, risparmiando il massacro.

Tutti sapevano, perché annunciato dalla stampa, che le navi sarebbero, dopo l’arrembaggio, state scortate nel porto di Ashdod e non certo per un giro turistico.

Si sapeva che erano state allestite tendopoli nel porto per «accogliere» gli oltre 700 attivisti internazionali, una volta sequestrati per essere poi espulsi.

In altri termini, era chiaro ed inequivocabile che Israele non avrebbe tollerato la messa in discussione dell’assedio alla Striscia di Gaza.

Certo, forse potevano sperare che gli attivisti internazionali si lasciassero trascinare a Ashdod passivamente e senza difendersi dall’assalto.

O, ancora meglio, facessero marcia indietro al primo alt intimato dalle navi di guerra israeliane.

Chi aggredisce chi?

Solo dopo che nessuno dei suoi «amici» ha gradito gli assassinii, Israele ha iniziato a «denunciare l’aggressione da parte dei pacifisti». Inondando i media internazionali e il web di video che avrebbero dovuto dimostrare questa pretesa aggressione, mentre non hanno che confermato che gli attivisti e i membri dell’equipaggio altro non hanno fatto se non difendersi, appunto, dall’arrembaggio da parte dell’ «unica democrazia del Medio Oriente».

Il vero obiettivo di Israele

Oggi, a pochi giorni da un massacro di cui ancora non si conosco i veri contorni, Israele cerca, come molte altre volte, di arrampicarsi sugli specchi, per evitare che il boomerang dal mediterraneo gli arrivi al centro degli occhi.

Ma molti membri dell’establishment israeliano hanno il pregio della chiarezza.

È il caso di Tzpi Livni, la criminale di guerra che ha sulle spalle la responsabilità di Piombo Fuso e il suo carico di morte e distruzione. Ad una televisione francese ha dichiarato che è fuor di dubbio che Israele svolgerà un’inchiesta sull’accaduto, anche se, ovviamente, questa «inchiesta interna» non metterà in discussione l’obiettivo vero dell’attacco del 31 maggio 2010: il proseguimento dell’assedio che lentamente sta strangolando un milione e mezzo di persone, rinchiuse nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, la Striscia di Gaza.

La Livni, in modo esplicito come le è di costume, risponde a chi pensa che ora sia giunto il momento di mettere in discussione l’assedio contro Gaza. Il suo ragionamento: togliere l’assedio significherebbe dare legittimità al governo di Hamas, cosa che sarebbe un problema non solo per Israele, ma anche per l’ANP di Abu Mazen e il governo di Salam Fayyad, l’Egitto di Mubarak, la Giordania di Abdallah e molti altri ancora.

Di fatto, sembra, che la Livni si rammarichi che l’eco avuta dalla sorte della Freedom Flotilla, rischi di mettere in discussione uno degli assi portanti della politica israeliana.

Ed ha ragione.

Proprio questo è il merito più grande della flottiglia: l’aver spezzato lo scandaloso silenzio sull’assedio di Gaza e le sue conseguenze.

Oggi, «grazie» all’attacco israeliano, molta più gente nel mondo ha capito cosa è in concreto l’assedio di Gaza.

L’impatto della strage attraverso il mondo è ben superiore a quello che Israele poteva attendersi.

Le manifestazioni popolari nei Paesi arabi e nel resto del mondo hanno dimostrato ancora una volta da un lato la dicotomia tra governi e popoli e dall’altro spingono i primi a prendere posizioni più rigide.

È il caso lampante dell’Egitto di Mubarak.

Solo qualche mese fa era proprio l’Egitto a farsi carico di bloccare la Gaza Freedom March, con oltre mille partecipanti, impedendo l’ingresso degli attivisti internazionali attraverso il valico di Rafah. Ma l’atteggiamento egiziano fu, dal punto di vista dei difensori dell’embargo a Gaza, molto più intelligente di quello israeliano. E non facciamo alcun complimento alle autorità egiziane.

In quel caso anche le cancellerie europee poterono scaricare i propri cittadini alla mercé dei dinieghi di ogni tipo delle autorità egiziane.

Intervenne anche Madame Mubarak che con una trappola clamorosa riuscì a spaccare il fronte degli attivisti.

Per evitare equivoci, non vogliamo offrire con questo alcun apprezzamento alle autorità egiziane, ma solo rilevare che nonostante tutto, la Gaza Freedom March, non è riuscita a rimettere in questione in modo concreto il ruolo dell’Egitto nell’assedio voluto da Israele contro Gaza.

Mentre oggi, Mubarak è costretto ad aprire per «un tempo illimitato» il valico di Rafah.

Le stesse cancellerie europee che nel dicembre scorso non batterono ciglio, oggi dopo l’arroganza dimostrata da Israele, iniziano a mettere in dubbio l’appoggio incondizionato all’assedio.

In altri termini queste ultime cominciano a chiedersi se il gioco vale la candela.

Mettere all’indice il governo di Hamas a Gaza attraverso un embargo terribile, soprattutto dopo l’eccidio di Piombo Fuso, dopo le conclusioni del rapporto Goldstone, appoggiandosi esclusivamente alla debolissima Autorità Nazionale Palestinese, può valere la collera turca? Turchia che da poco ha stipulato, inoltre, un accordo sul nucleare con l’Iran? Ponendosi di fatto come quell’interlocutore necessario tra l’ Occidente e l’Iran di Ahmadinejad.

Con l’attacco alla Freedom Flotilla Israele ha tentato di mettere in soffitta i problemi che l’embargo produce a livello internazionale, creandone di nuovi. Ha tentato anche di poter archiviare i contatti con il governo di Hamas, che tutti sanno essere in piedi da mesi, seppur «segretamente».

Dopo l’attacco del 31 maggio, è difficile per chiunque sostenere che parlare di assedio, affamamento, presa per fame e malattie dei palestinesi di Gaza, è fare propaganda pro-Hamas.

Il peso dei morti

L’aver dichiarato il porto di Ashdod «zona militare chiusa», ossia chiuso ai giornalisti israeliani e internazionali, alle organizzazioni internazionali, il rapimento in acque internazionali di circa 700 cittadini di 40 nazionalità e la loro traduzione nelle carceri israeliane, con la sospensione di tutti i loro diritti, con l’accusa ridicola di “ingresso clandestino in Israele”, l’impedire ai loro avvocati di poterli vedere, per constatarne le condizioni, era parte integrante dell’attacco e della tattica che lo sosteneva.

Anche qui, purtroppo, il peso dei morti ha avuto un ruolo non secondario.

Ci ricordiamo, infatti, che anche Gaza nel dicembre 2008 fu dichiarata «zona militare chiusa» a chiunque, ma in quel caso gli oltre 1.400 morti palestinesi sulla bilancia mondiale non avevano, e mai hanno avuto, lo stesso peso delle vittime di oggi.

Non è cinismo è constatazione cruda.

Questo può essere considerato l’ultimo dei molti autogol che l’attuale governo israeliano ha fatto pur di forzare la mano agli Stati Uniti.

È cosa nota che oggi gli Stati Uniti, non avendo una posizione di forza in Medio Oriente, ma, al contrario, trovandosi in difficoltà (dall’Iraq all’Afghanistan) non sono in grado di premere più di tanto su Israele.

Per questo motivo, nelle ore convulse seguite all’attacco, il coro di indignazione piuttosto ipocrita dei Paesi europei, che si limitano a chiedere un’inchiesta e non una condanna con conseguenti sanzioni contro l’atto di pirateria di Stato, gli Stati Uniti hanno prima taciuto a lungo per poi annullare l’incontro che martedì avrebbe dovuto avere Obama con Netanyahu. Incontro che avrebbe dovuto rimettere ordine nei rapporti difficili tra i due alleati di ferro.

Ma pur se burrascosi ancora una volta i rapporti tra la sedicente «comunità internazionale» e Israele sono improntati alla legge del «cane non morde cane».

In qualunque altra situazione un’ azione simile avrebbe comportato sanzioni e condanna esplicita.

Ora invece si assiste allo spettacolo indegno per cui anche un’inchiesta internazionale viene frenata con il veto di USA, Italia e Olanda e l’astensione ridicola di Francia e Gran Bretagna.

Per quanto riguarda l’Italia nulla di sorprendente. Il nostro Paese è stato l’unico dei 40 coinvolti nell’aggressione israeliana che, pur avendo sei suoi cittadini vittime del rapimento in acque internazionali, non ha chiesto ufficialmente spiegazioni a all’ambasciatore israeliano in Italia, non ne ha richiesto il rilascio immediato e senza condizioni. Anzi, ha espresso il rammarico che i sei cittadini italiani non avessero firmato la dichiarazione di «colpevolezza», allungando i tempi della loro detenzione. In altri termini: se lo vogliono.

Frattini, ministro degli esteri, si è affrettato a dire, inoltre, che essendo Israele un «Paese democratico» è in grado di svolgere da sé un’inchiesta credibile! Posizioni del genere non hanno bisogno di commento.

Viviamo in un Paese in cui la legalità è un eufemismo, perché meravigliarsi se la legalità internazionale viene considerata un optional?

L’indignazione invece resta intatta, come l’opposizione a questi «signori» che con la loro irresponsabilità e insipienza politica non si rendono conto di portare l’Italia sull’orlo di un baratro pericoloso.

Gli Stati Uniti certamente non hanno gradito l’alzata di ingegno israeliana, ma fino a questo momento le belle frasi roboanti di Obama non si sono trasformate in uno, che fosse uno, atto concreto per far pressione su Israele.

La marcia indietro sull’inchiesta internazionale la dice lunga in merito.

La vera posta in gioco

In questa situazione, ovviamente la posta in gioco è al rialzo. È al rialzo perché attaccando una nave battente bandiera turca Israele impone di fatto il cambiamento dell’agenda politica internazionale.

Le manifestazioni popolari che invadono fin dalla notte del 31 maggio le strade di Istanbul sono politicamente sostenute dal governo i cui esponenti più importanti, Erdogan e Gül ripetono in continuazione che «niente sarà come prima».

Per ora queste dichiarazioni di fuoco hanno sicuramente avuto come riflesso il fatto che i Paesi occidentali per quanto di malavoglia abbiano dovuto rimettere in discussione l’embargo di Gaza. Anche se non per motivi di non-legittimità, ma di opportunità.

Embargo che ormai da molto tempo viene denunciato da diverse agenzie internazionali per le sue conseguenze, umanitarie soprattutto.

Certamente ora chi trae il maggior profitto dall’attacco israeliano è il governo di Hamas. Esso ha ottenuto varie cose: sicuramente una nuova legittimazione internazionale, che se non era in discussione tra le popolazioni dei Paesi arabi, certamente non era data per scontata nell’opinione pubblica occidentale.

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese che nelle ore subito successive all’attacco aveva taciuto si è dovuta poi schierare non solo in modo chiaro, ma ha dovuto anche e soprattutto definire terrorismo internazionale l’atto di Israele. Cosa che sicuramente avrebbe fatto volentieri a meno di fare.

Con il clima che c’è in Cisgiordania anche la «guerra delle parole» non è di dettaglio: se Hamas definisce l’azione israeliana come «crimine di guerra», l’ANP non poteva limitarsi a condannare l’atto in modo generico.

Ma coloro che hanno inondato in questi giorni le pagine dei giornali sostenendo che il risultato peggiore dell’azione israeliana sarebbe quello di «bloccare il tentativo di riavviare il processo di pace» continuano a mentire spudoratamente o a ingannarsi in modo cocente. Sono anni ormai che il preteso «processo negoziale» è un puro esercizio diplomatico senza ne scopo ne esiti, ovviamente.

Ancora, in molti sottolineano che la vera svolta estremistica in Israele si è consolidata con l’operazione Piombo Fuso. Per molti aspetti è sicuramente quella una svolta fondamentale.

Ma non ci si deve mai stancare di ripetere che l’impunità favorisce l’estremismo israeliano senza limiti.

Nell’ultimo anno Israele ha preso una serie di iniziative tali da lasciar presagire addirittura una nuova Nakba: l’ebraicizazzione sempre più violenta di Gerusalemme, l’editto militare che definisce «clandestini» i cittadini palestinesi residenti da anni in Cisgiordania che non possono «dimostrare di essere originari delle città dove risiedono» (che nel momento in cui è stato promulgato l’11 aprile 2010 avrebbe colpito circa 65.000 persone. Già ci sono stati diversi casi di espulsioni forzate verso Gaza o verso altri Paesi arabi), il proseguimento della confisca delle terre e del Muro in Cisgiordania, le discriminazioni sempre più forti verso il milione e duecentomila cittadini palestinesi-israeliani, il proseguimento caparbio nonostante i costi umani dell’embargo contro Gaza.

Tutti questi atteggiamenti, in buona sostanza, non sono stati né sanzionati, ma neanche messi in dubbio dai Paesi occidentali, USA in testa, né, in sostanza da quelli arabi.

Per chi oggi si stupisce della reazione della Turchia, ricordiamo che Erdogan fu uno dei pochi dirigenti politici che all’indomani dell’attacco del dicembre 2008- gennaio 2009 attaccò platealmente Israele.

Questo atteggiamento della Turchia, quindi, non è una novità conseguenza solo del fatto che nove cittadini turchi sono stati assassinati in acque internazionali su una nave battente bandiera turca dalla marina militare israeliana.

La Turchia ha, dal canto suo, una serie di punti da risolvere e non pochi scheletri nell’armadio: a partire dall’oppressione e repressione delle rivendicazioni nazionalistiche kurde.

Erdogan facendo della Palestina il suo cavallo di battaglia recupera il consenso interno che era in calo.

Inoltre, nelle ultime settimane Israele si è visto più volte mettere in difficoltà.

Anche se è un segreto di Pulcinella, recentemente si è iniziato apertamente a parlare dell’arsenale nucleare israeliano, l’unico veramente esistente nella regione. Ed inoltre, non è stata una buona notizia il fatto che i promotori della conferenza per il Trattato di non Proliferazione Nucleare del 2012 abbiano puntato direttamente il dito contro quell’arsenale in modo esplicito. Sicuramente, infine, non è stata una lieta novella l’accordo della Turchia con la Siria e il suo ruolo di mediatrice con l’Iran, sempre a proposito di nucleare.

In questo senso, l’atteggiamento così determinato della Turchia, il suo non voler «passare sopra la Navi Marmara» ha il sapore della palla colta al balzo per rinnovare il proprio ruolo regionale. Anche per consolidare i propri rapporti con l’Iran, Paese in cui, inoltre, la Turchia ha fatto notevoli investimenti economici come anche in altri Paesi arabi.

In questa situazione il fatto che la Turchia sia un membro della NATO è sicuramente un dato determinante.

Non è da escludere che questo episodio sia usato dalla Turchia anche per vincere le resistenze al suo ingresso nell’Unione Europea.

La «Rachel Corrie»…i pacifisti buoni e quelli cattivi

Il 5 giugno un nuovo assalto in acque internazionali da parte della marina militare israeliana ha costretto la «Rachel Corrie» a fare rotta ancora verso il porto di Ashdod, ancora una volta dichiarato «zona militare chiusa».

Questa volta non ci sono stati spargimenti di sangue e assassinii a sangue freddo, come è avvenuto sulla «Navi Marmara». Gli attivisti internazionali, circa venti persone di varie nazionalità, tra cui un premio Nobel e un ex-vice segretario delle Nazioni Unite, Mairead Maguire e Denis Halliday, hanno comunque dovuto fare la stessa trafila dei precedenti 700, anche se più brevemente perché questa volta Israele li ha espulsi direttamente. Anche se in molti sono rimasti reclusi nell’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv perché rifiutavano di firmare una dichiarazione in cui si impegnavano a non avviare azioni legali contro Israele una volta tornati in patria. Quindi anche se è stata loro risparmiata l’accusa ridicola di «ingresso clandestino» è evidente come Israele faccia, come dice il detto, «le umane e divine cose» per evitare che il suo operato sia oggetto di decisioni giuridiche esterne. Ancora una volta è chiaro che l’immagine per Israele è cosa da difendere, anche contro l’evidenza dei crimini commessi.

Come era logico attendersi, visto che i passeggeri della «Rachel Corrie» non hanno opposto che resistenza passiva, ora Israele tenta una rimonta mediatica.

Si cerca di «dimostrare» che il fatto che sulla «Rachel Corrie» non sono scorsi fiumi di sangue significa che effettivamente il precedente convoglio di aiuti per Gaza non aveva scopi pacifici.

Questo è un sillogismo illogico che non regge. Tranne gli assassinii e i ferimenti, anche il 5 giugno lo Stato di Israele ha commesso un atto di terrorismo internazionale e di pirateria. Che il governo irlandese si accontenti del fatto che la propria sovranità nazionale sia violata senza spargimenti di sangue, che le stesse diplomazie internazionali che una settimana fa gridavano oggi tacciano o si compiacciano della «moderazione israeliana» non toglie alcunché ai reati ancora una volta commessi.

Non sono i morti, pochi o molti che siano, a rendere più o meno esecrabile il crimine.

Inoltre, l’altra tattica israeliana è quella di addebitare al governo di Hamas il rifiuto gli aiuti, che Israele si impegnerebbe a dare dopo il «filtro».

La posizione del governo di Gaza, al contrario è inevitabile: accettare gli aiuti «filtrati» significherebbe da un lato, accettare la lista dei prodotti che Israele unilateralmente ha decretato essere proibiti: dal cemento ai biscotti. Dall’altro, significherebbe accettare, di fatto, l’embargo.

Intanto, la sfida di Israele continua. Nella serata del 6 giugno Netanyahu e Barak annunciavano di rifiutare l’inchiesta internazionale come proposta dal segretario dell’ONU Ban Ki Moon. Ribadivano il fatto che il «diritto di Israele a intervenire per la propria difesa» non poteva essere oggetto di inchieste internazionali. Ribadivano anche che un’inchiesta interna è già in previsione.

Ma, nonostante questa facciata di spavalderia, contemporaneamente, sempre nella serata del 6 giugno, veniva convocata una riunione ristretta dei sei ministri del governo più direttamente interessati. Questa riunione aveva come ordine del giorno: «soppesare la richiesta di inchiesta internazionale». Essa si è conclusa a notte fonda senza arrivare a nessuna conclusione, cosa che lascerebbe pensare a divisioni nel governo in merito.

Evidentemente, l’apprendista stregone sta rendendosi, forse, conto di aver esagerato e che rischia di ritrovarsi nelle condizioni di perdere formula, formulario e di essere bocciato.

Anche perché la Turchia non molla la presa: Erdogan è arrivato ad annunciare che sul prossimo convoglio navale di aiuto a Gaza sarà lui in prima persona al timone. Sicuramente demagogia, ma comunque questa «promessa» rende ancora più esplicite le intenzioni.

Ancora, l’Iran si è detto disponibile a scortare nuovi convogli umanitari e a inviare due navi con aiuti umanitari e con personale della Mezzaluna Rossa a bordo verso Gaza.

La Gran Bretagna annuncia dal canto suo l’intenzione di stanziare 23 milioni di euro per la popolazione civile di Gaza.

Tutto questo sullo sfondo di un coro, come si è già detto, che vede dall’ONU al Vaticano e anche la NATO definire ormai «insopportabile» l’embargo a Gaza e l’occupazione israeliana nel suo complesso.

Questo probabilmente è il momento in cui la frizione tra gli interessi di Israele e dei suoi alleati tradizionali è giunta al limite più alto.

Certo, togliere l’embargo a Gaza, passo che è fondamentale, soprattutto per il milione e mezzo di uomini, donne, vecchi e bambini palestinesi, non è la soluzione del conflitto. Né ci si può aspettare miracoli sull’esito di questa crisi. Ma gli elementi fin qui descritti non lasciano prevedere che sia sufficiente un’operazione di maquillage da parte di Israele.

Chi vince, chi perde e chi ne paga il prezzo…e chi lo deve pagare

Una quasi completa rottura con l’unico Paese dell’area mediorientale, la Turchia, che fino al 30 maggio 2010 era il solo ad avere un’attiva collaborazione militare con Israele (operazioni militari congiunte, ecc.) è il prezzo che Israele è pronto a pagare, ancora spavaldamente sicuro dell’impunità.

Se è vero ciò che prima abbiamo già sottolineato come merito della Freedom Flotilla, è vero altrettanto che da questa parziale vittoria non devono uscire né eroi, né martiri.

Diciamo questo perché nulla andrebbe più a vantaggio di Israele che perdere di vista il vero obiettivo: la Palestina, in tutte le sue componenti.

Non è la prima volta che nella sua storia lo Stato di Israele appare molto isolato a livello internazionale. Ma i passi indietro che è stato, in passato come oggi, costretto a fare in realtà si sono rivelati prezzi sopportabili rispetto al progetto di fondo: non rinunciare al progetto colonialistico nel suo complesso.

Per questo motivo il movimento internazionale di solidarietà fa bene a ribadire che nonostante tutto le sue azioni non si fermeranno, anzi che debbono intensificarsi.

A cominciare dall’intensificazione della campagna internazionale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. Per parafrasare Primo Levi: «Se non ora, quando?».

È questo il messaggio che viene raccolto per primi dai lavoratori portuali svedesi che fin dal 5 giugno hanno lanciato il boicottaggio attivo di tutte le merci israeliane, fino a che non sarà tolto il blocco a Gaza.

C’è da sperare che il loro esempio venga seguito a livello mondiale, occorre lavorare in questo senso e con questo obiettivo.

Oggi l’immagine di Israele è assai compromessa e non possiamo permetterci di sprecare l’occasione.

Dopo ciò che è avvenuto dobbiamo più che mai essere consapevoli che i nostri errori il prezzo lo pagheranno i palestinesi e non noi.

Occorre che diventi patrimonio comune, senso comune, una logica elementare: i crimini si pagano, se restano impuniti non possono che ripetersi, sotto forma di tragedia.


* autrice di "Identità e conflitto. Il caso israelo-palestinese" edizioni

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