“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

sabato 12 giugno 2010

La mortale chiusura mentale di Israele



di Ilan Pappè

E’ improbabile che il declino della reputazione israeliana dopo il brutale attacco alla Flotta di Gaza influenzi davvero i leader del paese.

Ehud Barak e Benjamin Netanyahu sono due delle figure di maggiori spicco nel sistema politico e militare israeliano. Ci sono loro due dietro al tremendo attacco alla “flottilla” che ha scioccato il mondo ma che sembra essere considerato da tutta l’opinione pubblica come un semplice atto di legittima difesa.

Sebbene nello scenario politico israeliano siano uno di sinistra (Barak, il ministro della Difesa, è laburista) e uno di destra (il Primo Ministro Netanyahu è membro del Likud), entrambi hanno in comune la stessa visione di Gaza in generale e della vicenda della “flottilla” in particolare.
Un tempo Ehud Barak era il comandante di Netanyahu nell’equivalente israeliano della Special Air Service britannica (SAS- un corpo speciale militare inglese http://it.wikipedia.org/wiki/Special_Air_Service)
Per dirla più chiaramente hanno servito nell’esercito in un’unità simile a quella che ha assaltato la nave turca la scorsa settimana. La loro percezione della realtà della Striscia di Gaza è condivisa con molte altre personalità militari e politiche in Israele, e ampiamente sostenuta dall’elettorato ebraico israeliano.
Bisogna farsene una ragione. Sebbene Hamas sia l’unico governo nel mondo arabo eletto democraticamente dal suo popolo, deve essere eliminato sia politicamente che militarmente. La ragione sta non solo nel fatto che questo movimento-partito continua la lotta contro l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania che dura da quarant’anni lanciando missili rudimentali in Israele - che non sono frequenti quanto le rappresaglie israeliane che uccidono gli attivisti in Cisgiordania. La principale ragione sta nel fatto che Hamas si oppone al tipo di “pace” che Israele vuole imporre ai palestinesi.
La “pace forzata” non è negoziabile per le élite dirigenti israeliane e offre ai palestinesi un limitato controllo e una limitata sovranità sulla Striscia di Gaza e sulla Cisgiordania. Ai palestinesi viene chiesto di rinunciare alla lotta per l’autodeterminazione e la libertà in cambio della concessione di tre piccoli bantustan sotto lo stretto controllo e la supervisione di Israele.
La versione ufficiale in Israele, comunque, è che sia Hamas l’ incredibile ostacolo per la pace. E di conseguenza la strategia è dichiarata: affamare e costringere alla sottomissione il milione e mezzo di palestinesi che vive nello spazio più densamente popolato al mondo.
L’embargo era stato imposto nel 2006 per costringere i cittadini di Gaza a rimpiazzare il loro Governo con un’alternativa che avrebbe accettato le regole di Israele- o quanto meno che avrebbe fatto parte della più acquiescente Autorità Nazionale Palestinese della Cisgiordania. Nel frattempo Hamas ha catturato un soldato israeliano, Gilad Shalit, e di conseguenza il blocco è stato reso più duro. Ora include il bando dei più necessari beni di consumo, senza i quali per chiunque può diventare difficile anche sopravvivere. Per quanto riguarda il cibo e le medicine la gente di Gaza vive in condizioni che sono definite “catastrofiche” e “criminali” dalle organizzazioni internazionali e dalle agenzie che operano all’interno della Striscia.
Come nel caso della “flottilla”, ci sono sistemi alternativi per ottenere il rilascio del soldato che è stato fatto prigioniero, come lo scambio con le migliaia di prigionieri politici palestinesi che Israele tiene nelle sue prigioni. Molti di loro sono ragazzini, e un certo numero di questi è stato arrestato senza processo. Israele ha trascinato per le lunghe questo negoziato in merito allo scambio, che verosimilmente non è in grado di dare risultati in tempi ragionevoli.
Ma Barak e Netanyahu, e quelli che li circondano, sanno troppo bene che il blocco di Gaza non produrrà nessun cambiamento nell’atteggiamento di Hamas. Bisognerebbe dare credito al Primo Ministro inglese Dave Cameron (Ilan Pappe, storico israeliano, vive in Inghilterra dove insegna all’università di Exeter), che ha ricordato durante il question time della settimana scorsa che la politica israeliana ha rafforzato, anziché indebolire, il controllo di Hamas su Gaza. Ma il fatto che la strategia di Israele stia fallendo non sembra impaurire il governo di Gerusalemme.
Ci si potrebbe immaginare che il drastico deterioramento dell'immagine di Israele nell’opinione pubblica internazionale avrebbe potuto cambiare il modo di pensare dei suoi leader. Ma le risposte riguardanti l’attacco alla flottilla nei giorni scorsi dimostrano che non c’è il minimo spazio per un cambiamento di rotta nelle posizioni ufficiali. La ferma decisione di non togliere l’embargo e l’accoglienza da eroi che è stata riservata ai soldati che hanno assaltato la nave nel Mediterraneo mostrano che questa politica continuerà a essere la stessa per molto tempo.
Non è una novità. Il governo di Barak- Netanyahu - Lieberman non conosce altro modo per rispondere alla realtà esistente sul suolo di Israele e della Palestina. Questi politici sanno solamente fare ricorso ai soliti mezzi: la violenza per imporre la propria volontà, una febbrile propaganda che descrive tutto come legittima difesa, devastando la popolazione di Gaza e trattando quelli che cercano di portare aiuto come se fossero terroristi. Il dolore e la sofferenza delle persone non li riguardano, e nemmeno le condanne internazionali.
La reale, anche se non dichiarata, strategia di Israele è quella di mantenere questo stato di cose. Finchè la comunità internazionale sarà compiacente, il mondo arabo impotente e Gaza sigillata, Israele continuerà ad avere un’economia fiorente e un elettorato che accetta il dominio dell’esercito sulla propria vita e il conflitto e l’oppressione dei palestinesi come esclusiva realtà della vita in Israele del passato, del presente, del futuro.
Il vice presidente statunitense Joe Biden è stato umiliato recentemente quando gli israeliani hanno annunciato la costruzione di 1.600 nuove case nella zona contesa di Ramat Shlomo, nel distretto di Gerusalemme, proprio il giorno in cui era arrivato per discutere di come provare a congelare l’espansione delle colonie. Ma il sostegno incondizionato da questi offerto dopo l’ultima azione ha fatto sentire i leader e l’ elettorato giustificati.
Sarebbe sbagliato, comunque, credere che il sostegno americano e la debole risposta europea siano la ragione principale dell’embargo e del soffocamento di Gaza. C’è un elemento che forse è quello più difficile da spiegare ai lettori di tutto il mondo, cioè quanto queste percezioni e atteggiamenti siano profondamente radicati nella mentalità e nella psicologia degli israeliani. Ed è davvero difficile comprendere come siano diametralmente opposte le reazioni comuni che sono scattate in Inghilterra rispetto a quelle della società ebraica israeliana.
Le risposte internazionali si basano sull’assioma che qualche concessione ai palestinesi e un continuo dialogo con le élite politiche israeliane produrranno nuovi fatti sul terreno. La versione ufficiale che circola in Occidente è che la soluzione sia ragionevole e a portata di mano: i due Stati.
Niente è così lontano dalla verità come questa ottimistica visione. L’unica versione accettabile per Israele sarebbe quella di una addomesticata Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah e una presenza forte di Hamas a Gaza. E’ un’offerta che finirebbe con l’imprigionare i palestinesi in enclave in cambio della fine della loro lotta.
Nessuno parla di una soluzione alternativa – uno Stato unico e democratico, ipotesi che sostengo personalmente – oppure di quella, più plausibile dell’instaurazione di due Stati. Entrambe richiederebbero una completa trasformazione della mentalità ufficiale e dell'opinione pubblica israeliana. Questa mentalità è il principale ostacolo sul percorso verso una riconciliazione pacifica nella terra di Israele e della Palestina.
Il professor Ilan Pappé dirige il Centro Europeo di Studi palestinesi alla Exeter University e ha scritto “La Pulizia Etnica della Palestina”

traduzione di Virginia Fiume

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