“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

lunedì 28 settembre 2009

"...CHI RICORDA I NOSTRI 3000 MORTI DI SABRA E CHATILA?"

Chatila non dimentica
di Stefano Chiarini


Ventisette anni fa il massacro nel campo profughi palestinese a Beirut. La condizione dei rifugiati e la giustizia negata alle vittime delle violenze di falangisti e israeliani è una miscela esplosiva capace d'innescare nuove tragedie.

«Perché mai il nostro unico compito/ dovrebbe essere quello di scavare tombe?/ ...quanto profondo è tutto questo sangue». I versi del poeta palestinese Mahmoud Darwish, scritti su un vecchio manifesto di una delle tante organizzazioni non governative (ong) che cercano di alleviare la tremenda miseria dei campi, ben rappresentano l'esasperazione degli oltre 300.000 profughi palestinesi in Libano che si preparano a ricordare, il prossimo 16 settembre, il ventesimo anniversario del massacro di Sabra e Chatila.

Mai la tensione nei campi profughi, e più in generale in Libano, è stata così alta negli ultimi anni. Le minacce di una nuova guerra Usa all'Iraq, alla Siria, al Libano, un crescendo di episodi di violenza nei campi del sud e nella Beqaa, ma soprattutto le discriminazioni di cui sono vittime e il silenzio del mondo sui loro morti e sullo strazio dei loro diritti ha portato i rifugiati ad una cupa esasperazione ormai pronta ad esplodere.

«Da quindici giorni - ci dice Amina, una ragazza di vent'anni di Chatila - i media internazionali parlano delle 3.000 povere vittime dell'11 settembre e della necessità che sia resa loro giustizia, ma chi ricorda i nostri 3.000 morti di Sabra e Chatila? Come mai, se c'è questo senso di giustizia, il responsabile di quell'eccidio, Ariel Sharon, è invitato alla Casa bianca e definito da Bush "uomo di pace"?».

I fratelli di Amina annuiscono in silenzio guardandola con ammirazione. Poi dopo una breve pausa, mentre da dietro una tenda che divide in due l'unica stanza della casa dai muri verdi di muffa compare una sorella più piccola con un vassoietto col tè, uno di loro continua: «Perché tutti considerano normale che gli ebrei, dopo 2.000 anni, siano voluti tornare in Palestina mentre quelli di noi che, dopo appena 50 anni, vogliono fare altrettanto e si rifiutano di marcire in questi campi vengono definiti terroristi o estremisti?» «C'è chi innalza palazzi e chi scava tombe», sentenzia amara un'anziana parente, seduta nelle semioscurità.

I profughi vivono in una sorta di permanente, surreale incertezza fra il passato in patria, «il paese del latte e del miele», e il futuro «del ritorno» a dispetto di tutte le contingenze. L'ospedale di Sabra, ridotto ad uno scheletro di cemento dove vivono in piccole celle centinaia di famiglie con soli quattro bagni ogni piano e un lavello per i piatti e i panni, immerso nell'oscurità di pallide lampadine, si chiama non a caso «Gaza»; l'altro nosocomio vicino all'ambasciata del Kuwait, «Akko».

Sui muri delle case, foto ingiallite dei villaggi di origine mentre nelle vecchie scatole di metallo per i biscotti viene conservato tutto ciò che un giorno potrebbe essere utile a rivendicare la proprietà di terreni, case, beni mobili e immobili. In alcuni casi fanno la loro comparsa anche vecchie e grosse chiavi arrugginite: di casa, del magazzino, dell'ufficio, del negozio. Come se una chiave o persino un contratto di proprietà avessero un qualche valore davanti alla canna di un fucile quando il mondo guarda altrove.

Questo ventesimo anniversario è per certi versi ancora più amaro e triste di quelli che l'hanno preceduto, non solo per i ricordi personali delle 3.000 vittime massacrate dai falangisti sotto la supervisione dell'esercito israeliano tra il pomeriggio del 16 e la mattina del 18 - anziani, donne e soprattutto bambini torturati, menomati, in alcuni casi tagliati a fettine e poi ricomposti sulle tavole a mo' di dolci - ma anche per il fatto che tutto, a vent'anni di distanza, sembra di nuovo ripetersi.

Una veloce lettura degli eventi di quei terribili giorni del 1982 non lascia dubbi sulle responsabilità internazionali, proprio come oggi. I combattenti palestinesi si erano ritirati da Beirut alla fine di agosto in cambio dell'impegno sottoscritto dal governo israeliano con l'inviato Usa Philip Habib, di non entrare a Beirut ovest.

I soldati americani, francesi e italiani, arrivati il 21 agosto, avrebbero vigilato sul mantenimento degli impegni presi da Israele. Invece, ritiratisi i fedayin, gli Usa decisero un ritiro anticipato di 15 giorni, lasciando i campi alla mercé degli israeliani.

Sharon l'11 settembre dichiarò che a Sabra e Chatila «ci sono ancora 2.000 terroristi».

Martedì 14 venne ucciso Bechir Gemayel, il presidente falangista libanese alleato di Israele, mercoledì 15 l'esercito israeliano entrò a Beirut ovest e circondò i campi affidando ai falangisti la loro «ripulitura».

Giovedì 16 iniziò il massacro che sarebbe durato fino a sabato 18.

Lunedì 20 Reagan annunciò il ritorno delle forze multinazionali incaricate di «proteggere i palestinesi».

La strage era compiuta e la coscienza dell'Occidente salva.

*Stefano Chiarini, giornalista del manifesto ed esperto di Medio Oriente, è morto il 3 febbraio 2007. Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2002

da Il Manifesto del 17/09/2009
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1496&Itemid=1


Qui per fermare una Nakba infinita
di Antonietta Chiarini


Ancora una volta siamo qui per un appuntamento ormai irrinunciabile: quella che per molti di noi, attraverso le parole e gli scritti di Stefano, era una partecipazione a distanza, ora, dopo la sua scomparsa, è diventata una esigenza profonda.

Siamo qui, e con noi anche Tullia, la figlia di Stefano, per rendere omaggio a queste vittime e per fare testimonianza.

A Sabra e Chatila si cade in un doloroso incantesimo: ci si sente contemporaneamente vittime e responsabili, vittime perché colpiti nella nostra umanità, violati nei sentimenti più cari, umiliati per un'ingiustizia non ancora riparata, qui come nelle altre stragi perpetrate a danno del popolo palestinese e degli altri oppressi della terra; Sabra e Chatila, simbolo di un lungo elenco di città e villaggi aggrediti, evacuati, distrutti, fino alla ferita più recente, Gaza; ma ci si sente anche responsabili perché ognuno di noi, oltre ad appartenere alla razza umana, è anche cittadino di uno Stato e i governi di questi stati, nonché l'Onu, non si sono saputi o voluti imporre, non hanno preteso il puntuale rispetto delle garanzie internazionali né delle risoluzioni prese, né i loro tribunali hanno saputo punire i responsabili di questo orrore: la nebbia della diplomazia e i mezzi di comunicazione abilmente pilotati non permettono di capire la realtà del dramma palestinese.

Per Gaza l'opinione pubblica ha dato vita in tutto il mondo a imponenti manifestazioni di solidarietà, Gaza non si è sentita sola, tuttavia è stata considerata, spacciata per «emergenza». Emergenza?

L'emergenza per i palestinesi è stata la Nakba e dura da più di 60 anni!

Se veramente avessimo capito questo, ogni giorno e in ogni città ci dovrebbero essere manifestazioni per porre fine ad una situazione insostenibile di isolamento e di oppressione, perché sia ridata dignità ad un popolo negato e per recuperare la nostra.

Sabra e Chatila: questo luogo della memoria trasmette così violentemente l'orrore del massacro da farlo sentire attuale e tale rimarrà, una ferita non rimarginata, finché al popolo palestinese non verrà riconosciuto il diritto al ritorno, il diritto alla terra, il diritto ad avere dignità di Stato fra gli stati.

Si può distruggere un villaggio o una città, si possono uccidere gli esseri umani, si può seguire un sogno distorto di potenza lasciando dietro di sé tracce insanguinate del proprio passaggio, ma non si può uccidere la memoria e di questa memoria Stefano ha voluto essere il testimone angosciato e tenace.

È nel suo ricordo che noi siamo qui, perché la memoria delle ingiustizie patite dai palestinesi non si affievolisca ma si rafforzi e si dilati: una testimonianza a mille persone diventano mille testimonianze. Noi siamo qui ancora una volta, e tra noi tanti giovani, per essere testimoni credibili.

A Sabra e Chatila in questa ex-discarica diventata luogo di rispetto e di amore, la battaglia della memoria l'hanno vinta i palestinesi e i loro amici.

da Il Manifesto del 17/09/2009

domenica 27 settembre 2009

Jeff Halper: «Barack ostaggio del Congresso, è il momento del boicottaggio»

L'antropologo israeliano: il presidente ha le mani legate. La società civile si mobiliti per tenere viva la questione palestinese

di Michelangelo Cocco

Jeff Halper coniuga pessimismo della ragione - «Nessuna indicazione che Obama possa fare serie pressioni su Israele; 24mila case palestinesi demolite dal 1967» - e ottimismo della volontà - «Il movimento di boicottaggio sta riscuotendo grandi successi». In giro da Bolzano a Napoli per promuovere «Ostacoli alla pace» (Una città), abbiamo intercettato l'antropologo israeliano fondatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (Icahd) a Roma [...].

Sulle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati Obama sembra incapace di raggiungere con Netanyahu perfino un accordo parziale. Come lo spiega?
Israele sa da sempre che il suo asso nella manica è il Congresso, dove gode del sostegno bipartisan di repubblicani e democratici. Così Tel Aviv può permettersi di non ascoltare la Casa Bianca. Quando George W. Bush varò la Road map, il parlamento spedì all'ex presidente una lettera intimandogli di non toccare Israele. Finché Barack Obama non si mostrerà capace di portare il Congresso sulle sue posizioni, di essere duro con Israele, nulla cambierà.

Se Obama portasse dalla sua il Congresso, quali strumenti potrebbe utilizzare per fare pressione su Tel Aviv?
L'economia israeliana dipende dall'accesso privilegiato alla tecnologia militare statunitense. I progetti di sviluppo di armamenti che sottoscrive con l'Europa o la Cina vanno avanti grazie a questa disponibilità di tecnologia «made in Usa». Se Obama dicesse al ministro della difesa Gates: «Stop ai progetti comuni, ai milioni di dollari Usa nel sistema antimissile Arrow», Israele cederebbe alle richieste Usa perché, altrimenti, la sua economia crollerebbe.

Oltre alle colonie, quali sono i principali «ostacoli alla pace» descritti nel suo libro?
Per quanto riguarda gli ostacoli fisici: i checkpoint, il Muro, le demolizioni di case palestinesi. Ma quello che ho provato a dimostrare è che il grande ostacolo è Israele. Non si può sostenere che entrambe le parti debbano negoziare o cessare la violenza. Tutti gli ostacoli sul terreno sono stati creati da Israele, che è la potenza occupante.

E la demolizione delle case palestinesi a Gerusalemme?
Gli Usa chiedono il congelamento delle colonie ma non la fine dell'abbattimento, illegale, delle case palestinesi che va avanti ogni giorno: soltanto a Gerusalemme est 22mila case - 1/3 delle abitazioni palestinesi - hanno ricevuto ordine di demolizione da parte delle autorità occupanti. Da due generazioni viene sistematicamente impedito ai palestinesi di costruire a Gerusalemme, mentre 250mila israeliani si sono stabiliti nella sua parte orientale, come coloni. Il tentativo è quello di distruggere Gerusalemme est come capitale palestinese: una pressione tremenda verso quella che noi chiamiamo «giudaizzazione» di Gerusalemme.

Cosa ci si può aspettare dalla società civile?
La preoccupazione di Obama ora è la riforma sanitaria e il presidente non ha ancora il controllo del suo partito, ma ha dichiarato che la pace in Palestina è interesse nazionale degli Stati Uniti, cioè che il conflitto è contrario ai loro interessi. Noi (la società civile internazionale) abbiamo un ruolo importante: far capire che - contrariamente alle aspettative di tanti governi - la questione palestinese non scomparirà. La resistenza palestinese, noi, l'International solidarity movement, le organizzazioni per i diritti umani, manteniamo viva la questione. E all'estero assistiamo alla nascita di un movimento molto forte che chiede boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) per Israele.



Intervista a Jeff Halper a Fahrenheit su Radio3:

sabato 26 settembre 2009

L'ultima tentazione, vivere col nemico

di Michele Giorgio

Oggi incontro a New York tra il presidente statunitense, quello dell'Anp e il premier israeliano. Gli stessi americani confessano di avere «poche speranze». Netanyahu, che non ha fatto alcuna concessione sul congelamento degli insediamenti, gongola. Mentre Abu Mazen ingoia amaro, per non aver saputo dire di no GERUSALEMME Sempre più palestinesi acquistano casa nelle colonie
«Come viviamo a Pisgat Zeev?». Maher riflette qualche secondo prima di rispondere. «Mah, bene - dice - anche se abbiamo pochissimi contatti con i nostri vicini. Qualcuno ha capito che siamo palestinesi e ci evita, altri invece ci tollerano». Maher, palestinese di Gerusalemme, ci ha chiesto di non rivelare il suo cognome. Da due anni risiede con la famiglia in un appartamento della colonia ebraica di Pisgat Zeev, costruita a ridosso della zona araba (Est) della città.
Fino a pochi anni fa, un palestinese non avrebbe mai scelto di stare in una colonia, assieme ai «settler» che occupano la zona destinata a diventare la capitale del futuro Stato di Palestina. Nel migliore dei casi sarebbe stato accusato di essere un «collaborazionista» di Israele. «Ma oggi le cose stanno cambiando - sostiene Maher -, a Gerusalemme Est non ci sono case disponibili, costruirne una costa troppo e gli israeliani raramente concedono i permessi edilizi. Per me venire qui è stata una scelta obbligata».
Non sono noti i dati ufficiali del 2008 sulla presenza di palestinesi nelle colonie ebraiche costruite nel settore di Gerusalemme sotto occupazione dal 1967. Quelli del 2007, resi noti dall'Israel center for Jerusalem studies, evidenziano un fenomeno che non è più marginale. Dei 42mila abitanti di Pisgat Zeev circa 1.300 sono palestinesi, oltre 800 i palestinesi che vivono tra i 7mila residenti della Collina Francese e altri 600 risiedono a Neve Yaakov.
Una «presenza» passata inosservata per lungo tempo e che comincia a «preoccupare» gli ultranazionalisti israeliani. Non sorprende perciò l'incontro convocato il mese scorso dall'organizzazione militante «Nuovo Sinedrio» proprio a Pisgat Zeev, per discutere e condannare con parole di fuoco gli israeliani ebrei che vendono le case ai palestinesi. «Chi cede le case agli arabi è un traditore - ha proclamato Hillel Weiss, il portavoce del «Nuovo Sinedrio» -: siamo in guerra, se gli arabi conquistano anche un solo quartiere (colonia, ndr), saranno in grado di conquistare tutti gli altri».
Yusef, che come Maher preferisce non rivelare pienamente la sua identità, vive da un anno a Pisgat Zeev e non sembra avere in mente propositi di «riconquista». Tuttavia lo rallegra l'idea di aver messo piede nella terra che un tempo, prima delle confische, apparteneva al quartiere arabo di Beit Hanina. «Questa è terra palestinese e poi non è stato (il premier israeliano) Netanyahu a proclamare che ebrei e arabi possono vivere ovunque a Gerusalemme?», dice accennando un sorriso beffardo. Certo, spiega, «mi piacerebbe vivere assieme ai palestinesi ma a Gerusalemme est non si trova una casa per meno di mezzo milione di dollari e quelle che costano meno sono state costruite senza permesso e rischiano di venir demolite». «Qui - prosegue - ho comprato da un israeliano una casa di 150 metri quadrati per 245mila dollari e con tutti i documenti in regola».
Yusef aggiunge che a Pisgat Zeev ha trovato quei servizi che il comune non garantisce nella zona palestinese di Gerusalemme. «Ho a disposizione i trasporti pubblici, un servizio efficiente di raccolta dei rifiuti, strade asfaltate, con i marciapiedi e ben illuminate. Preferirei avere dei vicini diversi, ma non si può ottenere tutto nella vita», aggiunge ancora con tono beffardo. Yusef e Maher vivevano, rispettivamente, a Beit Hanina e Beit Safafa, quartieri dove gli abitanti pur pagando, come gli israeliani, le tasse comunali ricevono in cambio ben pochi servizi.
Secondo il ricercatore Khalil Tufakji, autore di «La dearabizzazione di Gerusalemme est», dopo oltre 40 anni di occupazione israeliana le misure anti-arabe si starebbero rivelando un «boomerang». «Il fine della politica (israeliana) nella zona est di Gerusalemme è stato quello di privare di servizi e diritti la popolazione palestinese allo scopo di spingerla a lasciare la città e di contenere la crescita demografica araba. (L'ex premier israeliana) Golda Meir voleva limitare gli abitanti palestinesi al 25%, ma oggi sono almeno il 35% e nel 2040 saranno il 55%, quindi la maggioranza», spiega Tufakji. «Ai palestinesi vengono negati i permessi edilizi - aggiunge - le aree edificabili sono state ridotte al minimo, le residenze revocate con vari pretesti (almeno 4mila famiglie sono state costrette a lasciare la città dal 1967)».
Tutto ciò, prosegue il ricercatore, «sta spingendo tante famiglie arabe a cercare casa nelle colonie ebraiche, approfittando della disponibilità di non pochi israeliani a vendere le loro abitazioni per trasferirsi nelle zone centrali del paese». Tufakji ricorda che l'86% dei terreni palestinesi a Gerusalemme est è stato confiscato e che le aree edificabili sono rare. «E anche quando si ottiene il permesso - spiega - occorre pagare subito 35mila dollari all'amministrazione comunale e, in ogni caso, non si possono costruire case alte più di tre piani». Nel 2004, riferisce Tufakji, delle 1.695 concessioni edilizie rilasciate dal comune appena 116 sono andate ai palestinesi e di queste solo 46 riguardavano abitazioni» A queste condizioni, conclude Tufakji, i palestinesi non possono far altro che comprare o affittare case ovunque siano disponibili a Gerusalemme.
Maher intanto si gode la sua abitazione a Pisgat Zeev e chiede all'Anp di Abu Mazen di creare un fondo speciale per Gerusalemme. «Sarebbe un modo per riappropriarci della nostra terra e per sfidare le politiche israeliane - dice - ora siamo costretti a rivolgerci alle banche israeliane per ottenere un mutuo, mentre le banche palestinesi potrebbero facilitare chi desidera comprare case israeliane». Secondo Khalil Tufakji «sarebbe opportuno» ma, aggiunge, «l'Anp e il mondo arabo non hanno una strategia valida per contrastare le politiche di Israele a Gerusalemme».


http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090922/pagina/09/pezzo/260475/

Israele cerca l’appoggio di Obama sull’indagine a Gaza

di Barak Ravid e Anshel Pfeffer

Mercoledì, Israele ha domandato a un certo numero di membri ad alto livello dell’amministrazione di Obama di appoggiarla nel limitare il grave danno internazionale prodotto dalla relazione della Commissione Goldstone rilasciata questa settimana, nella quale si accusa Israele di aver commesso crimini di guerra durante l’Operazione Piombo Fuso.

Il Ministero degli Esteri, mercoledì, ha deciso di concentrare i suoi sforzi nel tentativo di combattere le accuse contenute nel rapporto rivolgendosi agli Stati Uniti, alla Russia e a pochi altri membri appartenenti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e al Consiglio per i Diritti Umani, che sono coinvolti nelle guerre in Iraq e in Afghanistan.

Il messaggio israeliano sostiene che il rapporto Goldstone minaccia quei paesi, in quanto esso crea grosse difficoltà alla guerra al terrore, e ci si deve perciò impegnare per impedire che esso venga portato davanti alla Corte Criminale Internazionale dell’Aja (ICC). Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha sollevato la questione mercoledì con l’inviato speciale per il Medio Oriente, Gorge Mitchell, mentre il rappresentante del Ministero degli Esteri, Daniel Ayalon, ne ha discusso con l’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Susan Rice, e con altri funzionari di alto livello.

La Commissione Internazionale, nominata dal Consiglio per i Diritti Umani e guidata dal giudice Richard Goldstone, accusa Israele di crimini di guerra e sta trasmettendo le sue raccomandazioni al ICC dell’Aja. Secondo il rapporto: “Alcune delle azioni del governo di Israele potrebbero giustificare una decisione della corte competente che accerti che sono stati commessi crimini contro l’umanità,” e “….la Missione rileva che c’è stato un certo numero di violazioni del Diritto Umanitario Internazionale e della legge per i Diritti Umani.”

Il Ministero degli Esteri ha costituito un forum di esperti legali per seguire qualsiasi azione processuale che potrebbe essere intentata a seguito del rapporto e per essere pronti per una situazione nella quale una causa fosse stata portata di fronte al tribunale dell’Aja.

Ayalon, che stava facendo una visita di lavoro negli Stati Uniti, ha cominciato giovedì a inviare messaggi a membri ad alto livello dell’amministrazione degli Stati Uniti e del Congresso per la necessità di presentare obiezioni nei confronti del rapporto. Egli ha rilevato che la stessa strategia che era occorsa in merito alla Risoluzione 3379 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che metteva in relazione il sionismo con il razzismo, deve essere messa in atto con la relazione Goldstone.

Il Presidente Shimon Peres ha rilasciato una dichiarazione, mercoledì, nella quale si afferma che il rapporto Goldstone “ha fatto una parodia della storia.”

Sempre mercoledì, l’ufficio del Primo Ministro ha deciso che Peres avrebbe dovuto trovarsi in prima linea nella campagna israeliana contro la relazione. Netanyahu e il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman non si sarebbero espressi pubblicamente sull’argomento, ma sarebbero impegnati in una diplomazia nascosta.

Ufficiali superiori del Ministero degli Esteri, mercoledì, hanno dichiarato che la decisione israeliana di non collaborare con la Commissione Goldstone era stata giusta. Essi hanno insistito che questo era il caso, malgrado il fatto che tutti gli israeliani che hanno prestato liberamente testimonianza prima della Commissione Goldstone, come Noam Shalit, padre del soldato israeliano rapito Gilad Shalit, hanno inciso sulla relazione e sullo stesso Goldstone in modo affine a ciascun’altra testimonianza israeliana.

Un funzionario superiore del Ministero degli Esteri ha affermato: “Noi sapevamo che la relazione sarebbe stata inclemente, ma Goldstone ci ha sorpreso sul come è stata dura. Ciò sta proprio a dimostrare quanto eravamo dalla parte della ragione nel non collaborare. Se l’avessi fatto, avremmo legittimato questo scandalo.”

La relazione di 575 pagine descrive 36 casi specifici nel quali l’IDF ha violato in modo evidente le leggi internazionali. Un gran numero di casi sono già stati presi in esame dall’IDF a seguito dell’operazione, all’interno delle unità che avevano preso parte ai combattimenti e da cinque comitati istituiti con ordinanza del capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi. Nella maggior parte dei casi, le indagini hanno stabilito che i soldati hanno operato secondo gli ordini, nonché nel rispetto del diritto internazionale. Tuttavia, non è stato deciso ancora se fare uso del materiale raccolto da parte dell’IDF per confutare le conclusioni del gruppo di Goldstone o di lasciarlo come prova nel caso in cui all’estero vengano formulate delle accuse contro specifici ufficiali delle Forze Israeliane di Difesa.

L’IDF e il Ministero della Giustizia sono preoccupati in quanto il rapporto potrà rendere difficoltosi i viaggi all’estero per ufficiali israeliani. Un gruppo congiunto del Ministero della Giustizia, dell’IDF e del Ministero degli Esteri ha già una squadra di esperti legali, che avvertono gli ufficiali di non lasciare il paese e in alcuni casi ha impedito loro di visitare specifici paesi.

Viene richiesto che ogni soldato e ufficiale si sottoponga ad un incontro informativo di sicurezza prima di intraprendere un viaggio all’estero; lo scorso anno, venne richiesto ad alcuni ufficiali che avevano preso parte ai combattimenti a Gaza, in particolar modo se i loro nomi erano comparsi nei media, di sottoporsi ad un incontro informativo speciale.

Fonti legali hanno affermato che sono stati coinvolti per trattare la questione principalmente esperti civili, piuttosto che l’ufficio dell’Avvocatura Militare Generale.

Diversamente da quanto comporta la sua partecipazione al gruppo congiunto, l’IDF si è rifiutato ufficialmente di confutare le affermazioni contenute nel rapporto Goldstone. L’esercito ha deciso di fornire al Ministero degli Esteri le risposte alle critiche all’estero riguardanti le proprie attività.

Haaretz ha rivelato una direttiva dell’IDF, che fa seguito all’Operazione Piombo Fuso, la quale proibisce di pubblicare i nomi e le foto dei comandanti di battaglione che hanno partecipato all’operazione per il timore di rappresaglie legali nei loro confronti. Pochi mesi dopo, l’IDF ha fatto marcia indietro sulla questione.

Israele è preoccupato in quanto gli ufficiali, e perfino gli alti funzionari governativi ed i ministri che sono coinvolti nell’approvazione dell’operazione, potrebbero rischiare di essere arrestati in un paese che sia firmatario del trattato che riconosce la Corte Criminale Internazionale dell’Aja (ICC) e che è obbligato, di conseguenza, a rispettare i suoi mandati di cattura.

Le autorità sono preoccupate, in modo particolare, per gli ufficiali che sono in visita in paesi che permettono ai loro sistemi legali che prevedono la “giurisdizione universale” di processare – a seguito delle denuncie presentate da privati cittadini o delle iniziative di giudici inquirenti – una persona sospettata di aver commesso crimini di guerra in un altro paese. Sono inclusi tra questi paesi la Gran Bretagna, il Belgio, la Spagna e la Norvegia.

Fino ad oggi, c’è stato solo un caso di un ufficiale che ha corso il rischio di venire arrestato in un paese straniero – il maggiore generale Doron Almong, ex-comandante della regione occupata meridionale (GOC) – che è dovuto restare a bordo dell’aereo con il quale era andato a Londra e ritornare in Israele per la paura di essere arrestato, dopo che un gruppo palestinese aveva intentato un’azione legale contro di lui per crimini di guerra.

http://www.haaretz.com/hasen/spages/1115233.html

(tradotto da mariano mingarelli)
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1493&Itemid=76





Gli Stati Uniti affermano che il rapporto delle Nazioni Unite su Gaza è ingiusto nel confronti di Israele


di The Associated Press

Venerdì, l’amministrazione Obama ha criticato seccamente una relazione delle Nazioni Unite che afferma che Israele ha commesso numerosi crimini di guerra all’inizio di quest’anno durante la sua guerra a Gaza. La dichiarazione del Dipartimento di Stato U.S. mette fine a quasi una settimana di reazioni fatte in sordina alle conclusioni che sono già state respinte da Israele.


Il Dipartimento di Stato ha sostenuto che le conclusioni della Commissione delle Nazioni Unite guidata dal giudice sudafricano Richard Goldstone sono state ingiuste nei confronti di Israele, in quanto non hanno affrontato in modo completo il ruolo avuto nel conflitto dai gruppi di miliziani palestinesi di Hamas. Ha affermato che gli Stati Uniti si sono opposti alla raccomandazione che le azioni compiute da Israele siano rinviate alla Corte Criminale Internazionale (ICC).

Il portavoce Ian Kelly ha raccontato ai giornalisti: "Benché la relazione faccia riferimento ad entrambe le parti del conflitto, essa si concentra in modo schiacciante sulle azioni compiute da Israele."

Egli ha sostenuto che, mentre la relazione trae conclusioni di fatto e di legge eccessivamente radicali nei riguardi di Israele, le sue risultanze sulla condotta deplorevole di Hamas e il mancato adeguamento dello stesso al diritto umanitario internazionale durante il conflitto, sono al più approssimative e incerte.

La relazione delle Nazioni Unite, consegnata giovedì, ha criticato Israele per le morti di civili a Gaza, affermando che nell’offensiva era stata utilizzata una forza sproporzionata. Durante le tre settimane del conflitto sono stati uccisi circa 1.400 palestinesi. Israele ha rilanciato l’accusa dicendo che la colpa è stata di Hamas in quanto i suoi combattenti avevano dislocato sia le forze che coloro che lanciavano i missili in quartieri affollati.

La relazione ha dichiarato che anche il lancio da parte di Hamas di razzi sui civili israeliani è un crimine di guerra.

Giovedì, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha criticato ferocemente le conclusioni, affermando che le forze di sicurezza israeliane stavano esplicando il diritto del loro paese di difendere se stesso. Gli Stati Uniti sono rimasti per lo più muti fino a venerdì, limitando la loro reazione ad espressioni di preoccupazione a proposito di argomenti non specificati e sul mandato della commissione.

Il mandato era stato assegnato a Goldstone e ai suoi colleghi dal Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, quest’anno, prima che il Presidente Barack Obama avesse deciso di mettere fine alla politica dell’amministrazione Bush di snobbare l’istituzione, prendendovi parte.

Venerdì, Kelly ha affermato che gli Stati Uniti avevano l’intenzione di mantenere la discussione sulla relazione all’interno del Consiglio e che erano preoccupati molto seriamente riguardo alla raccomandazione che essa fosse sollevata presso altre istituzioni, inclusa la Corte Criminale Internazionale.

Egli ha sostenuto: "Facciamo notare in particolare che Israele possiede degli organismi democratici per indagare e per intentare azioni penali contro eventuali abusi, e noi esortiamo che sia Israele ad utilizzare quelle istituzioni."

Anche degli ufficiali degli Stati Uniti si sono dimostrati preoccupati per la possibilità che Stati Arabi ed altri potrebbero cercare di sollevare la questione del rapporto, la prossima settimana, alla sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Kelly ha detto che era importante per il mondo restare concentrato sul tentativo di rilanciare i colloqui di pace Israelo-palestinesi e ha continuato:

"Noi ci auguriamo che gli impegni assunti presso il Consiglio per i Diritti Umani e le altre istituzioni internazionali e riguardanti il Medio Oriente potranno avere prospettive di futuro sul come si può sostenere l’obiettivo di una soluzione a due-stati."
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1115659.html

(tradotto da mariano mingarelli)
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1494&Itemid=76

Disonore all'Aja

di Gideon Levy

C’è un nome su ogni pallottola, e c’è qualcuno responsabile per ogni crimine. E’ stato squarciato, una volta per tutte, il mantello di teflon che Israele si era avvolto tutt’attorno fin dall’Operazione Piombo Fuso ed ora devono essere affrontate questioni difficili. E’ divenuto superfluo porre la domanda se a Gaza vennero commessi dei crimini di guerra, in quanto sono già state fornite risposte chiare ed autorevoli. In tal modo, deve essere posta la domanda successiva: di chi è la colpa? Se vennero commessi dei crimini di guerra a Gaza, ne consegue che tra di noi ci sono dei criminali di guerra in libertà. Essi devono essere giudicati responsabili e puniti. Questa è la rigorosa conclusione tracciata dalla relazione dettagliata delle Nazioni Unite.


Per quasi un anno, Israele ha cercato di sostenere che il sangue versato a Gaza era soltanto acqua. Un rapporto si era succeduto all’altro, con effetti ugualmente raccapriccianti: assedio, fosforo bianco, scempio di civili innocenti, infrastrutture distrutte – crimini di guerra in tutti i resoconti. Ora, dopo la pubblicazione della relazione, la più importante e schiacciante fra tutte, compilata dalla commissione diretta dal giudice Richard Goldstone, i tentativi di Israele di screditarli appaiono assurdi e le vuote sbruffonate dei suoi portavoce risuonano patetiche.

Per quanto essi si siano concentrati sugli inviati e non sulle loro comunicazioni: l’investigatore per il Controllo del rispetto dei Diritti Umani raccoglie cimeli nazisti, Rompere il Silenzio è un affare, Amnesty International è anti-semitica. Tutto è propaganda a buon mercato. Come se, questa volta, l’inviato fosse un professore in propaganda. Nessuno può affermare seriamente che Goldstone, un fervente ed attivo sionista, con legami profondi con Israele, sia un anti-semita. Sarebbe ridicolo. Quantunque ci siano stati alcuni agenti che hanno tentato di usare effettivamente l’arma dell’anti-semitismo contro di lui, sebbene riconoscessero che tutto ciò fosse farsesco. Si sarebbe dovuto ascoltare la commovente intervista che la figlia di Goldstone, Nicole, aveva concesso mercoledì a Razi Barkai della Radio dell’Esercito, per capire che lei di fatto amava Israele e ne era un’amica autentica. Ella aveva raccontato, in ebraico, dell’angoscia mentale che suo padre aveva provato e della sua convinzione che, se non ci fosse stato lui, il rapporto sarebbe stato di gran lunga peggiore. Precisò che tutto ciò che lui voleva era un Israele che fosse più giusto.

Nessuno può avere dei dubbi neppure sulle sue credenziali giuridiche, in quanto giurista internazionale al massimo livello con una impeccabile reputazione. L’uomo che aveva scoperto la verità sul Ruanda e sulla Yugoslavia, aveva fatto ora la stessa cosa riguardo a Gaza. L’ex principale procuratore del Tribunale Criminale Internazionale dell’Aja non è solo un’autorità giuridica, ma anche un’autorità morale; quindi critiche nei confronti del giudice non saranno prese in considerazione. E’ tempo, invece, di guardare più da vicino gli accusati. Quei responsabili sono in primo luogo Ehud Olmert, Ehud Barak e Gabi Ashkenazi. Finora, cosa incredibile, nessuno di loro ha pagato alcun prezzo per i loro misfatti.

Piombo Fuso è stata un’aggressione esagerata su una popolazione civile assediata e senza protezione alcuna che non ha mostrato quasi alcun segno di resistenza durante l’operazione. Ciò avrebbe dovuto sollevare una collera immediata in Israele. E’ stata una Sabra e Chatila, questa volta eseguita da noi. Sennonché in questo paese, a seguito di Sabra e Chatila, ci fu una bufera di proteste, mentre dopo Piombo Fuso sono state sciorinate solo pure citazioni.

Avrebbe dovuto essere sufficiente considerare solo la spaventosa disparità nel numero delle vittime – 100 palestinesi uccisi per ognuno degli israeliani – per turbare l’intera società di Israele. Non c’era alcuna necessità di aspettare Goldstone per comprendere quale terribile cosa era avvenuta tra il Davide palestinese e il Golia israeliano. Ma gli israeliani hanno preferito guardare da un’altra parte o starsene con i loro bambini sulle colline attorno a Gaza ed esultare per la carneficina causata dalle bombe.

Sotto la copertura di media impegnati, di analisti ed esperti criminalmente parziali – i quali tutti si sono trattenuti dal divulgare le informazioni – e con un’opinione pubblica compiacente alla quale era stato fatto il lavaggio del cervello, Israele si è comportato come se nulla fosse accaduto. Goldstone ha messo fine a tutto ciò e per questo dobbiamo ringraziarlo. Dopo che il suo compito si è concluso, saranno prese le ovvie iniziative pratiche.

Sarebbe meglio che Israele facesse appello al coraggio per cambiare la rotta, fintanto che c’è ancora tempo, facendo sulla materia indagini reali, e non tramite le inchieste grottesche delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), senza aspettare Goldstone. Olmert e Tzipi Livni devono essere costretti a pagare per la loro vergognosa decisione di non collaborare con Goldstone, sebbene a questo punto il latte è versato. Ora che la relazione prosegue sulla sua strada verso la Corte Criminale Internazionale (ICC) e potrebbero essere emessi presto dei mandati di arresto, ciò che resta ancora da farsi è la costituzione immediata di una Commissione d’Inchiesta per evitare il disonore dell’Aja.

Forse la prossima volta che si darà inizio ad un’altra inutile ed infelice guerra, si prenderà in considerazione non solo il numero delle vittime che si dovranno probabilmente subire, ma anche il pesante danno politico che tali guerre producono.

Alla vigilia del nuovo anno ebraico, Israele sta diventando, meritatamente, un paese emarginato ed odiato. Non dobbiamo dimenticarcelo per un minuto solo.
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1115240.html

(tradotto da mariano mingarelli)
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1492Itemid=76



Dopo la pubblicazione del rapporto dell’ Onu per i fatti avvenuti a Gaza: Israele al Tribunale per i crimini di guerra!

di Michael Warschawski

La pubblicazione del rapporto dell’Onu per l’accertamento dei fatti sul conflitto di Gaza è un passo importante, a condizione che abbia un seguito. Esso è importante anzitutto per la sicurezza pubblica internazionale: durante i due decenni del predominio dei neo-conservatori negli Stati Uniti, abbiamo assistito agli sforzi congiunti della casa Bianca e di Israele per vanificare le norme del diritto internazionale. Possiamo ricordare lo stupido commento di George W. Bush: egli, nella cornice della guerra globale al terrorismo sostenne che era essenziale annullare le limitazioni poste ai combattenti dalla Convenzione di Ginevra.

E Israele, già nei primi anni ’70 aveva deciso che la Quarta Convenzione di Ginevra non era applicabile nei Territori Occupati.

Il rapporto, e prima di questo il parere consultivo della Corte Internazionale sulle Conseguenze legali della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati, ricorda al mondo che la lezione dell’epoca nazista non è stata dimenticata e che il mondo non è una giungla in cui predomina la forza, ma una comunità civilizzata che si sforza di agire secondo le leggi internazionali che proteggono i fondamentali diritti degli esseri umani. E per coloro che obiettano, giustamente, che queste norme internazionali sono violate ogni giorno dalla maggioranza dei Paesi del mondo, noi dobbiamo rispondere che è meglio che ci siano norme e leggi che proteggono i più deboli, anche se non sono generalmente rispettate, che vivere in una società senza leggi che permette al più forte di fare ciò che vuole.

Le risposte dei leader israeliani erano prevedibili: “rapporto prevenuto” “ approccio unilaterale”, e “ noi abbiamo sempre saputo che Goldstone è antisemita…. o un Ebreo che odia se stesso”.

A capo di questa campagna sta, e non poteva essere altrimenti, Ehud Barak, che ha dichiarato che “questo rapporto non solo premia il terrorismo, ma addirittura lo incoraggia” . Barak ha aggiunto che il Ministro della Difesa assicurerà la consulenza legale a quegli ufficiali contro i quali fossero avviati procedimenti legali.

In base ai regolamenti della legge internazionale si suppone che le conclusioni del rapporto saranno ora discusse nel Consiglio per i Diritti Umani e poi nel Consiglio di Sicurezza, che potrebbe poi trasferirle alla Corte Internazionale dell’Aja o a una Corte internazionale speciale, cosicché coloro che sono sospettati di aver commesso crimini di guerra possano essere processati e se ritenuti colpevoli condannati a stare dietro le sbarre per molti anni. In ogni modo, questa stessa legge internazionale ha previsto dei privilegi per le grandi potenze, cioè il potere di veto.

La diplomazia israeliana concentrerà immediatamente i propri sforzi nel convincere alcune di queste potenze a porre il veto e togliere Israele dai guai. E soprattutto farà pressioni sulla casa Bianca.

Così è arrivata la vera prova per Barack Obama : nessuna dichiarazione su “la pace entro due anni” e “il diritto dei palestinesi a uno stato”, ma al momento una trattativa con politiche concrete che contraddicono i valori che egli sostiene e con chiare esortazioni a adire alle vie legali.

Barack deciderà se al sistema delle leggi internazionali sarà permesso di fare ciò che ci si aspetta da esse . Con mio dispiacere, io scommetto che lui starà con Israele, cioè, che gli Stati Uniti useranno il potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.Comunque, il veto americano non porrà fine alla storia: numerosi Paesi nel mondo hanno adottato leggi che permettono loro di giudicare persone accusate di crimini di guerra contro l’umanità.

Sta a noi, donne e uomini, in Israele e all’estero, che temono per la sicurezza pubblica internazionale e le leggi internazionali, il compito di unire le forze per porre a questi criminali di guerra il dilemma: rischiare di essere processati se vengono trovati in paesi il cui la legge lo permette, o rimanere chiusi in Israele, abbandonando l’idea di fare turismo in Spagna o un anno sabbatico nel Regno Unito.

Come è accaduto al precedente comandante delle forze aeree israeliane che è stato costretto a rimanere dentro l’aereo all’aeroporto di Londra, quando seppe dell’ordine di detenzione che lo aspettava se avesse messo piede in Gran Bretagna.

La creazione di un “Osservatorio sui crimini di guerra israeliani” può essere uno dei contributi della società civile per dar seguito al rapporto dell’ ONU , in aggiunta alla raccolta del rilevante materiale e delle testimonianze sulle azioni militari di Israele a Gaza , e al monitoraggio dei movimenti di coloro che sono sospettati di crimini di guerra.
http://www.alternativenews.org/michael-wasrschawski/2160-following-pubblication-of-report-of-the-un-fact- finding-mission-on-gaza-israeli-war-criminals-to-trialcourt-.html

(tradotto da Caterina Guarna)
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1495&Itemid=76

DOPO IL RAPPORTO ONU SUI MASSACRI A GAZA Sindacato britannico boicotta Israele

di Michelangelo Cocco

Il British trades union congress (Tuc), che con i suoi 6,5 milioni di iscritti è la principale confederazione sindacale britannica, ha aderito alla campagna di boicottaggio disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele. La decisione è stata presa ieri (a maggioranza assoluta) nella giornata di chiusura del congresso annuale del Tuc a Liverpool e all'indomani della pubblicazione del rapporto della Commissione Onu presieduta dal giudice Richard Goldstone che accusa Israele di aver commesso «crimini di guerra» durante l'offensiva militare contro la Striscia di Gaza (27 dicembre 2008-18 gennaio 2009) costata la vita a oltre 1.400 palestinesi, la maggior parte dei quali civili. Dichiarandosi a favore dei due stati e condannando anche il lancio di razzi Qassam da parte di Hamas, il Tuc chiede al governo laburista di Gordon Brown di «cessare ogni commercio di armi con Israele, imporre il bando all'importazione di merci prodotte negli insediamenti illegali nei Territori occupati». Il sindacato, che ha seguito l'esempio dell'irlandese Irish congress of trade unions (Ictu) e del sudafricano Cosatu, «appoggia le mosse per la sospensione del trattato di associazione Israele-Unione europea». Il Palestine solidarity campaign, la rete di associazioni britanniche che ha spinto per il boicottaggio, festeggia la sua vittoria. Così come gli attivisti palestinesi promotori del Bds, che incassano un altro successo dopo la decisione presa qualche giorno fa dal Fondo pensioni norvegese di ritirare i propri investimenti dall'azienda militare israeliana Elbit. Per la Palestina - sostengono i militanti - «è finalmente arrivato il momento sudafricano», con riferimento alla campagna internazionale di boicottaggio che contribuì in maniera determinante a porre fine al regime dell'apartheid in Sudafrica.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090918/pagina/07/pezzo/260179/

Sindacati inglesi si impegnano per un boicottaggio di massa dei prodotti israeliani. E quelli italiani ?

17 settembre – Con una decisione storica, i sindacati britannici hanno votato l’impegno a costruire un movimento di massa per il boicottaggio, il disinvestimento e sanzioni verso Israele e per una soluzione negoziata basata sulla giustizia per i Palestinesi.

La mozione è passata al Congresso Annuale 2009 del TUC (Trade Unions Council) a Liverpool oggi 17 settembre, che riunisce i sindacati rappresentanti di 6 milioni e mezzo di lavoratori del Regno Unito. Hugh Lanning, presidente della Palestine Solidarity Campaign, ha detto: ‘Questa mozione è il culmine di un’ondata di mozioni passate nelle conferenze sindacali quest’anno, a seguito dell’indignazione per la brutale guerra di Israele contro Gaza, e riflette la massiccia crescita del sostegno ai diritti palestinesi. Lavoreremo con i sindacati per sviluppare una campagna di massa per il boicottaggio dei prodotti israeliani, specialmente i prodotti agricoli provenienti dalle colonie illegali israeliane nella West Bank palestinese’.


La mozione invita inoltre il TUC General Council a premere sul governo inglese per la fine di ogni commercio di armi con Israele e per sostenere le iniziative per la sospensione dell’accordo commerciale fra Israele e l’Unione Europea. I sindacati sono anche incoraggiati a disinvestire dalle aziende che traggono profitto dalla quarantennale occupazione illegale israeliana di Gaza e della West Bank.


La mozione è stata presentata dal sindacato dei Vigili del Fuoco. I più grandi sindacati di categoria inglesi, compresi Unite(pubblico impiego) e UNISON (sanità), hanno votato a favore della mozione.
La mozione approvata condanna anche le dichiarazioni del sindacato israeliano Histadrut a sostegno della guerra di Israele contro Gaza, che ha ucciso 1.450 Palestinesi in tre settimane, e invita a riconsiderare le relazioni del TUC con l’Histadrut.

I sindacati inglesi hanno raggiunto quelli del Sud Africa e dell’Irlanda nell’impegno per una campagna di boicottaggio di massa per costringere Israele a rispettare il diritto internazionale e per fare pressione sullo Stato ebraico affinchè adempia alle Risoluzioni dell’ONU sul diritto alla giustizia ed all’uguaglianza per il popolo palestinese.

www.boicottaisraele.it
http://www.forumpalestina.org/news/2009/Settembre09 18-09-09SindacatiInglesiBoicottaggio.htm

giovedì 10 settembre 2009

NAHR EL-BARED: "...dove sono finiti i milioni di dollari stanziati dai Governi Internazionali per la ricostruzione?"

Due anni fa, il 7 settembre del 2007 finiva l'attacco al campo profughi Nahr el-Bared in Libano, ma dopo due anni la situazione è ancora al limite della sopravvivenza

9/09/2009 Report da Nahr al Bared

Il campo profughi di Nahr al Bared, con suoi 40.000 abitanti, era il secondo per dimensioni in Libano, possedeva fino al 2007, l’economia più stabile e sviluppata fra tutti i 12 campi

profughi palestinesi ufficialmente registrati sul territorio libanese. Era frequentato dai libanesi e anche dai vicini siriani, che godevano di prezzi competitivi e credito. Tra il maggio e il settembre del 2007, il campo è stato raso al suolo dall’Esercito Libanese, con il pretesto di estirparne le milizie di Fatah al Islam che vi si erano insediate. Il numero degli elementi armati di questa organizzazione non superava le quattrocento unità e nelle sue fila si contavano curdi, siriani, libanesi, sauditi e pochi elementi palestinesi estranei al campo.


Di ritorno a Nahr el Bared a 16 mesi dalla mia ultima vista, molte cose sembrano cambiate, anche se i cambiamenti rispetto al disastro e alla devastazione sono in realtà minimi e la situazione dei profughi è disperata. Il campo è tutt’ora occupato dall’Esercito Libanese, circondato da 5 check point con l’ingresso proibito a chiunque. I palestinesi devono mostrare l’ID ai check point ogni volta che entrano nel campo e spesso devono sottostare a controlli. ...

.... leggi tutto: http://www.associazionezaatar.org/index.php?option=com_content&task=view&id=676&Itemid=1

mercoledì 9 settembre 2009

450 nuove case, schiaffo agli Usa da Tel Aviv

COLONIE I palestinesi: impossibile negoziare

di Michele Giorgio
Pare che Benyamin Netanyahu abbia ordinato ai suoi ministri e collaboratori di non usare mai la parola «hakpaah», in ebraico «congelamento», a proposito del blocco dell'espansione delle colonie ebraiche nella Cisgiordania palestinese richiesto dagli Stati Uniti. Si dovranno usare, ha spiegato il premier israeliano, i termini «hashayah» (sospensione), «hamtana» (periodo di attesa) o al massimo «tzimtzum» (riduzione). E ha ragione il primo ministro, perché la colonizzazione non subirà alcuna sosta. Perfino durante la sospensione - di pochi mesi - che Netanyahu sta negoziando con l'Amministrazione Obama, le costruzioni andranno avanti.
Ieri il ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, ha dato il via libera alla costruzione di 455 nuove abitazioni per i coloni. I nuovi appartamenti si aggiungeranno ai circa 2.500 già approvati e che non rientrano nella possibile intesa tra Israele e Usa. Delle nuove case, 149 saranno costruite nella colonia di Har Gilo, nel blocco di Etzion vicino a Betlemme, 84 a Modiin Ilit ad ovest di Ramallah, 76 a Givat Zeev a nord di Gerusalemme, 25 a Kedar nei pressi della colonia di Maale Adumim ad est di Gerusalemme e altre 20 nell'insediamento di Maskiot nella Valle del Giordano. Nei prossimi giorni, Barak autorizzerà la costruzione di un'altra novantina di alloggi, portando a 455 il numero delle nuove costruzioni.
La notizia non ha sorpreso nessuno visto che venerdì scorso funzionari israeliani avevano provveduto ad annunciare che Netanyahu avrebbe dato il via libera ai nuovi progetti generando reazioni europee ed americane di scarso rilievo. È stato confermato infatti l'arrivo nel fine settimana dell'inviato Usa per il Medio Oriente, George Mitchell, che da alcuni mesi sta cercando di convincere Netanyahu a bloccare le attività negli insediamenti ebraici per riannodare il dialogo diretto con l'Anp di Abu Mazen. Ma alla fine ha vinto il premier israeliano che ha scelto di tenere fede alla sua ideologia e di mantenere le promesse fatte ai coloni in campagna elettorale.
Ieri era rimasta solo la destra ultraradicale che fa capo al deputato Aryeh Eldad (Unione nazionale) a puntare l'indice contro il governo Netanyahu «che costruisce un decimo delle case edificate in passato dalla sinistra». Un gruppo di coloni, per vendetta, ha tagliato 50 alberi d'ulivo in un terreno palestinese vicino a Ramallah. I settler «pragmatici» al contrario sorridono, perché hanno capito che l'Amministrazione Obama non farà nulla di serio per imporre a Israele il blocco della colonizzazione.
Ieri, ad esempio, si è tenuta una cerimonia simbolica, per la posa della prima pietra di un nuovo grande progetto edilizio destinato a dar vita a 3.500 nuovi alloggi, nella più grande delle colonie ebraiche, Maaleh Adumim, a est di Gerusalemme, in presenza anche di alcuni ministri. L'iniziativa, secondo gli organizzatori, prelude alla creazione di un intero nuovo sobborgo di Maaleh Adumin, denominato Mevasseret Adumim e pensato per ospitare migliaia di nuovi coloni.
Si tratta peraltro della cosiddetta zona «E1» dove, ma solo a parole, gli americani si oppongono a qualsiasi sviluppo degli insediamenti ebraici perché finirebbe per tagliare in due la Cisgiordania.
A questo punto un'intesa tra Usa e Israele per la sospensione temporanea delle costruzioni potrebbe rivelarsi addirittura controproducente per l'Anp e Abu Mazen. Netanyahu potrebbe affermare di aver «inutilmente» fermato i progetti edilizi nelle colonie (che, al contrario, andranno avanti senza alcun problema) di fronte ad un presidente palestinese che continua a respingere l'idea di una ripresa del negoziato diretto. Un rischio che l'Anp sembra aver colto.
«Sia ben chiaro - ha avvertito il caponegoziatore dell'Anp Saeb Erekat - che la decisione di Israele di costruire più di 450 nuove case vanifica gli effetti che l'annuncio di un congelamento delle colonie avrebbe comportato». Erekat mette le mani in avanti ma in casa palestinese temono che l'Amministrazione Obama abbia definitivamente accettato le condizioni di Netanyahu.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090908/pagina/08/pezzo/259305/

La farsa pace-insediamenti

di Zvi Schuldiner
Sorpresa? No, solo un nuovo capitolo nella nota farsa pace-insediamenti. Ehud Barak, ministro della difesa israeliano, ha autorizzato nelle ultime ore la costruzione di 450 unità abitative in vari punti dei Territori occupati. Perché il ministro della difesa? La ragione è semplice: persino il governo israeliano riconosce lo status legale dell'occupazione. Le convenzioni internazionali che Israele teoricamente accetta vietano il trasferimento di popolazione dal territorio occupante a quello occupato. Solo in casi in cui la costruzione è destinata a garantire la sicurezza, si autorizzano nuove costruzioni ed espropriazioni. Dal 1967, vari governi israeliani hanno utilizzato la « scusa geniale»: questo e quell'avamposto viene prima costruito per ragioni di sicurezza, poi dopo qualche tempo arrivano i civili.
La demagogia del premier Netanyahu e dei suoi ministri sulle reali esigenze dei coloni nei territori occupati e sul diritto di tutti i cittadini a ottenere una risposta al problema degli affitti, non devono celare una realtà elementare: questa bugia fa parte del processo di colonizzazione, tanto più che i palestinesi non godono di un diritto simile.
Non ci sono insediamenti legali e illegali. Tutti gli insediamenti sono illegali. Ma, anche se non lo fossero, bisogna ricordare qual è la ragione per la loro costruzione: ogni insediamento è un segnale per un cambiamento della mappa geografica, per la possibile giustificazione della futura annessione dei territori occupati. In altre parole: ogni insediamento è destinato a costituire un ostacolo effettivo per impedire una pace giusta.
Mentre il premier Begin discuteva con i presidenti Sadat e Carter l'accordo di pace di Camp David, il ministro dell'agricoltura Sharon annunciava che era necessario portare avanti la costruzione di insediamenti nei territori occupati.
Successivamente Sharon è diventato ministro della difesa e si è fatto carico di evacuare gli insediamenti in territorio egiziano. Poco dopo, per migliorare la sua immagine, ha scatenato la guerra del Libano del 1982.
La conferenza di Madrid del 1991 è stata preceduta da vari negoziati condotti dal segretario di stato americano James Baker. A ogni tornata negoziale, gli israeliani lo ricevevano con un nuovo insediamento, finché il presidente Bush (padre) non ha congelato i prestiti a Israele se questo non avesse interrotto la costruzione degli insediamenti, contribuendo forse alla vittoria di Rabin nel 1992.
Che dire di Oslo? Nel 1993, la storia sembrava a un punto di svolta, ma i negoziatori palestinesi non sono stati abbastanza scaltri da esigere l'interruzione degli insediamenti. Si negoziava la pace, ma allo stesso tempo si portava avanti una colonizzazione sfrenata. Il principio che regge questa politica è semplice: a ogni insediamento corrisponde un po' di sicurezza in più e per questo costruiamo nuove strade e per questo confischiamo più terre. Se poi i palestinesi protestano e la situazione si deteriora, sarà necessario costruire nuovi avamposti, nuove basi, nuove strade...
Bisogna che tutti capiscano che questo è un processo di colonizzazione e che non sarà bloccato solo con dichiarazioni vacue: il vero problema non è se il presidente americano Barack Obama è in grado di pronunciare un bel discorso all'università del Cairo. Il vero problema è che bisogna analizzare attentamente gli interessi imperiali americani per capire se cambierà la politica americana nella regione, anche se questo implicasse l'esercizio di una pressione su Israele simile non solo a quella esercitata da Baker e Bush nel 1991, ma alla decisione sovietico-americana del 1957, quando le due potenze hanno costretto Israele a ritirarsi subito dal Sinai, poco dopo che il premier Ben Gurion aveva dichiarato il Terzo Regno di Israele.
Il segretario di stato americano Kissinger lo aveva già detto: Israele non ha una politica estera; questa è il prodotto della sua politica interna. Sembra saggio, ma in realtà è banale: la politica estera è sempre una versione altra della politica in grande. Il premier israeliano si è aggiudicato oggi un certo respiro.
Congelare la costruzione degli insediamenti? Atto di lesa maestà, dice la destra. Sembrava che alcuni del Likud volessero ribellarsi contro il premier e la sua coalizione traballante.
L'ordine di Barak, che autorizza 450 nuove unità abitative, ha permesso di placare i ministri più estremisti e di evitare la possibile ribellione della destra del Likud e dell'ultradestra. Ora tutti si stanno allineando dietro al premier, che nei prossimi giorni potrà dire all'inviato americano George Mitchell che Israele congelerà i nuovi insediamenti per i prossimi nove mesi.
È forse facile placare i falchi del governo? No. Loro sanno che i complessi progetti della costruzione rendono molto difficile un'interruzione reale, a meno che non ci sia una reale pressione da parte degli Stati uniti o della comunità internazionale.
Congelare per nove mesi o un anno significa che in questo periodo non si costruiranno nuove unità. Però... però si continuerà a costruire quelle già approvate in passato e si inizierà a costruire le 450 frescamente approvate. Poi, come si potrà lasciare i poveri coloni senza una sinagoga, un'infermeria, una scuola o un supermercato? La farsa continua.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090908/pagina/01/pezzo/259273/

Un rapporto conferma che più della metà dei palestinesi uccisi a Gaza dall'esercito israeliano erano civili

Sono impressionanti le cifre fornite dall'ong israeliana B'Tselem che ha pubblicato un bilancio rivisto dell'operazione 'Piombo fuso'. L'offensiva israeliana dell'inverno scorso contro Hamas nella Striscia di Gaza ha fatto circa 1.400 morti palestinesi, piu' della meta' dei quali non erano combattenti. B'Tselem, che ha condotto sue proprie ricerche, afferma che 1.387 palestinesi sono rimasti uccisi durante le tre settimane di conflitto. Tra loro, "773 non hanno preso parte alle ostilità, compresi 320 minori e 109 donne". Sempre secondo B'Tselem, i palestinesi hanno ucciso nove persone durante il conflitto: tre civili e un membro dei servizi di sicurezza israeliani sono morti per i lanci di razzi di gruppi armati palestinesi contro il sud di Israele da Gaza, e cinque soldati sono stati uccisi nella Striscia. Quattro soldati israeliani, inoltre, sono stati uccisi dal "fuoco amico", scrive B'Tselem. L'esercito israeliano non ha voluto per ora commentare i dati. L'ong sottolinea che le sue cifre "contrastano" con quelle presentate da Tsahal, secondo cui i morti sono stati 1.166: l'esercito aveva spiegato che erano stati 295 i civili palestinesi uccisi, di cui 89 con meno di 16 anni e 49 donne.

http://www.forumpalestina.org/news/2009/Settembre09/09-09-09RapportoConferma.htm

Quella bandiera palestinese sul Campidoglio

Sergio Cararo *

Sono scesi martedì sera i senza casa che da una settimana si erano insediati sui tetti dei Musei Capitolini sulla piazza del Campidoglio a Roma. I senza casa erano stato sgomberati il 1 settembre dall’occupazione che durava orma da alcuni anni dell’ex ospedale Regina Elena abbandonato. Alcune centinaia di persone, tra cui donne e bambini, dopo lo sgombero erano state deportate e disperse in topaie definite centri di accoglienza dall’amministrazione comunale della Capitale.

Ma i senza casa e gli attivisti dei movimenti di lotta, la sera stessa si erano concentrati con delle tende sul piazzale michelangiolesco del Campidoglio e sette di loro si sono arrampicati sui tetti dei Musei Capitolini con striscioni e bandiere. Tra le bandiere che hanno portato con sé a sventolare sui tetti del primo colle capitolino, c’era anche la bandiera palestinese che ha sventolato ininterrottamente per otto giorni.

Ci hanno segnalato che la presenza di quella bandiera palestinese sulla stessa piazza in cui un ex giovane fascista diventato sindaco tiene esposta una grande foto del soldato israeliano Gilad Shalit, ha creato tantissima irritazione nell’entourage e tra “alcuni elettori” del sindaco Alemanno. Ma le richieste di togliere la bandiera palestinese dai tetti del Campidoglio non è stata accettata dai senza casa ed è rimasta lì a testimoniare tante cose:

1) La bandiera palestinese è testimone e simbolo della lotta di liberazione del suo popolo. Ciò viene vissuto come tale da tutti coloro che lottano per i propri diritti, anche per quelli sociali come la casa in un paese lontano come l’Italia. La bandiera israeliana e le immagini diffuse dalla sua propaganda come quelle del giovane soldato Shalit ancora prigioniero, non hanno e non avranno mai la stessa percezione tra la gente. Almeno fino a quando coincideranno con l’oppressione del popolo palestinese.

2) Una famiglia senza casa perché sfrattata, riconosce quasi naturalmente se stessa nella condizione a cui lo stato di Israele ha costretto centinaia di migliaia di palestinesi espulsi dalle loro case nel corso di questi sessanta anni

3) I movimenti sociali, i senza casa, i lavoratori che si oppongono ai licenziamenti – come i palestinesi - sanno che possono e debbono contare solo sulle proprie forze e sulla propria capacità autonoma di determinare e incidere su una agenda politica che contempli i propri interessi ed obiettivi

Quella bandiera palestinese sul Campidoglio, una bandiera che sventola in un momento così difficile per la lotta del popolo palestinese ritenuto ormai un popolo fatalmente destinato a subire l’oppressione di uno stato colonialista, è un segnale di straordinaria importanza e di grande incoraggiamento. E’ il segno che la resistenza sul campo e un costante lavoro di informazione e solidarietà in paesi come l’Italia ha creato radici, attenzioni e simpatie al di là del prevedibile per la causa palestinese.
Un grande ringraziamento va dunque a quei senza casa che hanno portato quella bandiera palestinese con sé sui tetti della Capitale per otto giorni.

* Forum Palestina
http://www.forumpalestina.org/news/2009/Settembre09/09-09-09BandieraPalestineseCampidoglio.htm

martedì 8 settembre 2009

A SCUOLA DI "DEMOCRAZIA" IN ISRAELE


ISRAELE INSEGNA
Anche nell'istruzione distribuzione di risorse ineguale, e iniqua.

Nella parte Est della capitale «sacra e indivisibile» di Israele mancano mille aule e la metà non rispetta gli standard minimi di sicurezza. Per i bimbi palestinesi (5mi
Gerusalemme l'indivisibile separata anche nelle scuole
La denuncia in un rapporto di due associazioni ebraiche

di Michele Giorgio
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090905/pagina/09/pezzo/259143/

Unita con la forza e divisa nella distribuzione delle risorse, a cominciare da quelle per l'istruzione. E' questa la Gerusalemme che Israele si è unilateralmente proclamato sua «capitale sacra ed indivisibile». I palestinesi sotto occupazione nel settore arabo (Est) della città ricevono una frazione minima degli investimenti comunali, pur pagando le tasse come gli israeliani nel settore ebraico (Ovest), e corrono il rischio costante di vedersi cacciar via dalla Città Santa se non rispettano i criteri rigidissimi fissati dal ministero dell'interno per poter conservare la residenza. Il primo settembre, con la riapertura delle scuole per i ragazzi israeliani e palestinesi, è l'occasione annuale per rendersi conto delle differenze enormi negli investimenti che l'amministrazione municipale israeliana compie nelle due parti della città.
«Vi auguro di diventare tutte madri della pace. Se le madri sono istruite, anche i loro figli lo saranno. Vogliamo che tutto il paese sia ben istruito, senza differenze tra i sessi, di razza e di fede», ha proclamato il presidente israeliano Shimon Peres visitando il primo settembre l'istituto scolastico al Mamuniya per ragazze palestinesi di Sheikh Jarrah. Ha poi aggiunto che «ebrei e arabi devono avere il diritto di costruire secondo il loro bisogni». Mentre parlava a poche decine di metri di distanza dalla scuola i coloni israeliani continuavano a «ristrutturare» le abitazioni palestinesi di Gerusalemme Est, che nelle settimane passate hanno occupato con la forza, e l'aiuto della polizia, lasciando in strada altre due famiglie.
La Gerusalemme dei diritti per tutti di cui parla Peres semplicemente non esiste. Un rapporto pubblicato qualche giorno fa, in anticipo sull'inizio dell'anno scolastico, da due associazioni ebraiche per la tutela dei diritti civili, Acri e Ir Shalem, dimostrano che il gap esistente tra le scuole israeliane e quelle palestinesi continua ad allargarsi.
A Gerusalemme Est mancano circa mille aule e la metà di quelle esistenti non rispettano gli standard minimi sanitari e di sicurezza. Almeno 5mila bambini palestinesi non frequentano la scuola (molti altri l'abbandonano dopo pochi anni) e il comune non sembra far nulla di concreto per portarli in aula. «Eppure basta fare un giro per i mercati della città o prestare attenzione ai semafori per vederli portare sulle spalle cassette colme di frutta e verdura o vendere accendini e gomme da masticare», dice al manifesto il consigliere comunale del Meretz (sinistra sionista) Meir Margalit, attivista della lotta contro la demolizione delle case palestinesi. «Il comune - aggiunge - dovrebbe rispettare la legge sulla scuola dell'obbligo e assicurare alle famiglie palestinesi più povere l'aiuto necessario per poter mandare i figli a scuola, invece non muove un passo per ragioni ideologiche e politiche. Semplicemente agli amministratori israeliani non importa nulla del futuro dei bambini palestinesi, loro lavorano solo per gli ebrei perché gli arabi devono pagare le tasse, stare buoni e non aprire bocca». Le stesse statistiche del comune evidenziano che a Gerusalemme Est il 67% delle famiglie vive sotto la soglia della povertà.
Secondo dati riferiti dal quotidiano Haaretz, per un bambino palestinese vengono spesi annualmente 557 shekel (poco più di 100 euro) mentre un israeliano 2.373 (440 euro). «I palestinesi sono doppiamente penalizzati: dal comune e dalla situazione di conflitto», spiega ancora Margalit. «Le scuole della zona Ovest godono anche di generose donazioni da parte di importanti istituzioni ebraiche mentre quelle palestinesi non hanno alcun aiuto. Nessun ricco saudita, ad esempio, accetterà mai di donare soldi per scuole palestinesi versandoli nelle casse del comune di Gerusalemme, che rappresenta l'occupazione israeliana del settore arabo della città».
Il comune di Gerusalemme, da parte sua, riferisce di aver costruito nella zona Est 248 aule nell'ultimo triennio ma lo scorso anno l'allora ministro dell'istruzione Yuli Tamir aveva dovuto ammettere che «c'è un vuoto creato dall'abbandono di 40 anni». Intanto molti dei circa 94mila studenti palestinesi di Gerusalemme devono adattarsi a seguire le lezioni in aule di appena 12 metri quadrati, facendo doppi e tripli turni in classi di 35-40 alunni. «E' una situazione impossibile, spesso anche le condizioni minime di sicurezza non sono assicurate in scuole dove si muore dal freddo d'inverno e di caldo già all'inizio della primavera», denuncia un ricercatore palestinese, Ahmad Laban. «Gli studenti non hanno a disposizione computer, non conoscono palestre, giardini e altre strutture di ricreazione dove poter gioire oltre a seguire le lezioni. I nostri ragazzi non hanno modo di vivere l'istituzione scolastica», aggiunge.
Il sospetto di molti a Gerusalemme Est è che il comune stia di fatto spingendo la maggioranza dei palestinesi verso le scuole private. Già oggi, chi può permetterselo, paga 500 dollari l'anno (le famiglie ricche al mese) e iscrive i figli in istituti cristiani e islamici, ben lieti di impartire una educazione rigorosamente religiosa a tanti studenti. Sono già oltre 30mila ma il loro numero cresce di pari passo col crollo progressivo della scuola pubblica.


RAZZISMO
Studenti falascia respinti per «gap»

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090905/pagina/09/pezzo/259142/
«Bureaucratic mix-up», un pasticcio burocratico. Con questa curiosa espressione Ynet, il sito del più venduto dei quotidiani israeliani, Yediot Ahronot, qualche giorno fa spiegava la decisione di tre scuole ebraiche della città di Petah Tikva di rifiutare l'ammissione a decine di studenti «falascia», ebrei di origine etiope, a causa di un presunto «gap culturale» impossibile da recuperare. Curiosa ma non sorprendente in un paese dove la stampa (e non solo) chiama «transfer», trasferimento, la pulizia etnica a danno dei palestinesi. In tale contesto il razzismo diventa inevitabilmente un «pasticcio burocratico». Ancora una volta la comunità dei «falascia» è vittima di un caso di razzismo da parte di altri ebrei israeliani. E nonostante le assicurazioni date dal ministero dell'istruzione, 16 degli studenti respinti dalle scuole religiose non hanno partecipato ai primi giorni di scuola. D'altronde la storia dei «falascia» in Israele non è mai stata facile, nonostante i massicci investimenti statali per la loro integrazione. Il rabbinato ne ha riconosciuto l'ebraicità solo dopo lunghe esitazioni e non sorprende che la Shuvu, una delle scuole religiose disposte ad accogliere gli etiopi, abbia chiesto a cinque studenti il «certificato di conversione all'ebraismo». Richiesta che persino il liberal Haaretz definisce «spiacevole incidente».


RICERCA DEL TAUB CENTER - L'avanzata dell'integralismo religioso e il progressivo arretramento del sistema educativo pubblico israeliano
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La corsa dei genitori, soprattutto quelli arabi, all'istruzione privata
Sullo sfondo del nuovo anno scolastico in Israele non ci sono solo le proteste degli insegnanti, precari e non, o i casi sempre più frequenti di discriminazioni razziali. Quest'anno la riapertura delle scuole è stata preceduto da uno studio sulle statistiche del ministero dell'istruzione svolta dal Taub Center for Social Policy Research di Gerusalemme. La ricerca ha messo in evidenza che quest'anno il 48% del totale degli studenti israeliani si è iscritto alle scuole ebraiche ultraortodosse (haredi) oppure in quelle arabe, statali e private. Dieci anni fa erano il 39%. Una crescita elevata dovuta all'aumento, in questi dieci anni, del 10% della popolazione scolastica araba israeliana e del ben 51% degli scolari provenienti da famiglie religiose ultraortodosse. A questi dati si aggiungono l'aumento delle scuole religiose statali (8%) di fronte ad una diminuzione del numero delle scuole statali «laiche», dove comunque l'insegnamento della religione e dei testi sacri è sempre stato un caposaldo.
I dati indicano il progressivo arretramento, per motivi diversi, del sistema educativo israeliano che pure all'estero gode di un'ottima reputazione. Se le università sono a livelli di eccellenza, le scuole sembrano materializzare le tendenze più preoccupanti che si manifestano nella società, senza dimenticare le storiche discriminazioni alle quali sono soggetti i palestinesi con cittadinanza israeliana per il fatto che non sono riconosciuti come minoranza nazionale. Di fatto, indicano i dati del Taub Center, il 50% degli ragazzi israeliani riceverà una istruzione di livello inferiore, sicuramente poco moderna. Le scuole ebraiche ultraortodosse continuano a fondare i programmi di studio sulla Torah e il Talmud e poco, praticamente nulla, sulla storia (ad eccezione di quella sacra), l'arte, la geografia, la filosofia, la musica, la matematica e l'informatica. Da parte loro gli studenti arabi sono le vittime dirette di un sistema scolastico che li vede destinatari di una frazione minima delle risorse ingenti indirizzate verso le scuole ebraiche, statali e private. Non a caso ai test psicotecnici alla fine della scuola media inferiore il risultato degli arabi israeliani è inferiore del 14% a quello dei loro coetanei ebrei.
Di fronte a ciò, è cominciata la corsa di molti genitori, soprattutto di quelli arabi con qualche possibilità economica, verso la scuola privata. Sin dalla fondazione dello Stato di Israele il sistema educativo privato, semi-ufficiale ma riconosciuto, ha sempre accolto una fetta significativa della popolazione scolastica del paese. Per i palestinesi spesso è stata una scelta obbligata di fronte a programmi scolastici statali concepiti per diluire se non azzerare l'identità della minoranza araba (circa il 20%). Scuole private, gestite quasi sempre da ordini religiosi cristiani (ma oggi aumentano gli istituti ad orientamento islamico) che hanno garantito, entro i limiti imposti dallo Stato, la tutela della cultura, delle tradizioni e della storia della comunità araba. Con gli anni queste scuole private hanno raggiunto, in non pochi casi, livelli di eccellenza tanto elevati che sono arabe un terzo delle migliori scuole di Israele, soprattutto nell'insegnamento delle lingue di base, arabo ed ebraico, e di quelle straniere, in particolare inglese e francese. Non mancano peraltro «sorprese». Si scopre infatti che alcune famiglie ebree hanno iscritto i loro figli nei licei privati arabi.
Il professor Chaim Adler, dell'Università ebraica, intanto lancia l'allarme sul declino della scuola pubblica: «Ormai nel sistema educativo statale (superiore) entrano solo studenti che (negli anni precedenti) avevano ottenuto risultati modesti perchè i migliori vengono assorbiti in gran parte dalle scuole private». (mi.gio.)

lunedì 7 settembre 2009

Terrorismo della marina israeliana: distruzione di imbarcazioni e di vite umane

di Eva Bartlett, In Gaza

(IPS) – Fino a lunedì, Omar e Khaled al-Habil erano i proprietari di un peschereccio di 20 metri sul quale erano imbarcati cinque o sei pescatori per volta, ma che ne impiegava, a rotazione, circa 18. Ma quella mattina l’imbarcazione è finita sotto il pesante fuoco della mitraglia di una nave israeliana, poi di colpi di artiglieria. Il peschereccio ha preso fuoco.
“E’ distrutto, completamente distrutto,” dichiara al-Habil.

Facendo riferimento al gruppo dei cinque pescatori di quella mattina, che comprendeva anche suo figlio Adham Al-Habil, egli ha raccontato: “Erano partiti la mattina di buon’ora e si erano diretti a nord.” Al-Habil sostiene che la barca era molto all’interno del limite imposto da Israele di tre miglia.

“Con loro c’erano altri pescherecci. L’imbarcazione era a circa un chilometro dalla costa di Gaza, si trovava al limite meridionale di Sudaniya ( una zona costiera di Beit Lahia, a nord di Gaza).”

Un portavoce della marina israeliana, secondo quanto si dice, ha affermato che l’imbarcazione “aveva violato i confini di sicurezza presso la costa della Striscia di Gaza” ed era “al di fuori della zona nella quale la pesca era autorizzata.” Ha riferito, inoltre, che le imbarcazioni non hanno risposto ai colpi di avvertimento.

Khaled al-Habil ricorda il tutto in modo diverso.

“Un battello della marina israeliana li ha abbordati ed ha fatto fuoco. E’ stato il caos. Il fuoco era intenso; è durato per 15 o 20 minuti. Il peschereccio si è fermato, ma gli israeliani hanno continuato a sparare. Per finire, gli israeliani hanno esploso contro il battello un colpo di mortaio. Tutti i pescatori si sono lanciati in acqua.”

Suo figlio Adham al-Habil ha ricevuto bruciature dal fuoco, che, molto probabilmente, è divampato a seguito del lancio del colpo di mortaio.

Un buco carbonizzato sul lato frontale della parte destra del battello segna dove ha colpito il colpo di mortaio ed è uscito. Da questo punto in giù il ponte è annerito per la fuliggine. Il volante di metallo è tutto ciò che resta della cabina.

“Sono arrivati altri pescatori per aiutarci. Essi hanno rimorchiato la mia imbarcazione, riconducendola al porto di Gaza,” ha sostenuto al-Habil. Una volta giunti, i pompieri hanno impiegato più di 20 minuti per spegnere l’incendio.

I pescatori palestinesi hanno il diritto di pescare fino a 20 miglia nautiche dalla costa di Gaza, ma le autorità israeliane, nel corso degli anni, hanno ridotto unilateralmente questo limite a 3 miglia. La pesca più abbondante si ha oltre le 6 miglia.

L’industria palestinese della pesca, che impiega più di 3.500 addetti, è stata rovinata per colpa degli attacchi israeliani alle imbarcazioni da pesca, le confische dei battelli e degli equipaggi, e il ratto dei pescatori palestinesi.

Sotto l’assedio condotto da Israele, con la complicità dell’Egitto, Gaza è alla fame per la carenza di generi essenziali, necessari al funzionamento dell’economia e della società. Ne sono inclusi i pezzi di ricambio per le attrezzature da pesca introvabili o rotte.

Mentre un 95% delle industrie di Gaza, secondo quanto viene riferito, ha chiuso i battenti a causa dell’assedio, molti palestinesi disoccupati sono tornati a dedicarsi alla pesca, che pure risulta impraticabile.

Una relazione dell’agosto 2009 dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) descrive in modo dettagliato il declino dell’industria ittica.

L’OCHA riporta il valore del pescato del mese di aprile nei tre anni trascorsi. Nel 2007, la pesca fatta è stata di 292 tonnellate. Nel 2008, è stata di 154 tonnellate e nel 2009 si è ridotta a 79 tonnellate.

L’OCHA evidenzia che, ridotta la zona per la pesca lungo la costa, molti pesci vengono presi nelle acque contaminate dagli 80 milioni di litri di liquami non depurati o parzialmente trattati che vengono pompati ogni giorno nel mare ”come risultato della mancanza di manutenzione e di miglioramento delle infrastrutture riguardanti le acque luride.”

Ed ora al-Habil non dispone più di un peschereccio.

Questo non è stato il primo guaio per la sua imbarcazione attualmente distrutta. Il 4 di luglio, cannoniere israeliane avevano sequestrato 6 pescatori e confiscato il battello di al-Habil tre miglia oltre la costa settentrionale di Gaza, trattenendolo per 45 giorni prima di restituirlo. Al-Habil riscontrò che c’erano delle attrezzature mancanti e dei danni consistenti fatti al motore ed ai cavi.

Il 18 novembre 2008, a 7 miglia dalla costa centrale di Gaza, cannoniere israeliane circondarono tre pescherecci palestinesi, tra i quali c’era anche quello di al-Habil, e presero tutti i 15 pescatori che erano a bordo, oltre a tre attivisti per la solidarietà internazionale. Israele trattenne i battelli fino al 27 di novembre.

“Non è solo la mia barca. Gli israeliani ci attaccano ogni giorno: se non è un peschereccio allora è un piccolo battello, oppure l’aggressione ha luogo a terra.”

Il pescatore palestinese Muhammed al-Attar è stato ucciso il 27 di agosto da cannoneggiamenti israeliani fuori dalla zona settentrionale di Gaza. Il capo dei servizi di emergenza, il dr. Mu’awiyah Hassanein, ha raccontato che al-Attar era stato decapitato dallo scoppio.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) riferisce che il 14 di agosto il 12 enne Mohammed Bassam ‘Aashour è stato ferito gravemente da una raffica alla testa, quando le cannoniere israeliane hanno fatto fuoco contro un peschereccio palestinese vicino alla costa di Rafah.

Khaled al-Habil è solo uno dei tanti pescatori palestinesi i cui mezzi di sostentamento sono stati distrutti. Padre di 13 figli, vive con la sua famiglia in uno stretto appartamento di 400 mq. La sua unica fonte di reddito è stata distrutta.

“Voglio un buon avvocato,” dice, ”e voglio sottoporre tutto ciò al giudizio di un tribunale.”

(tradotto da mariano mingarelli)

http://newsfrommiddleeast.com?new=57585
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1475&Itemid=75

domenica 6 settembre 2009

La vicenda degli studenti etiopi mostra un razzismo molto diffuso in Israele

di Gideon Levy

Tutto ad un tratto si può pronunciare la parola “razzismo.” Un’onda traumatica ha colpito la compiaciuta società israeliana. A Petah Tikva, poche dozzine di bambini etiopi non sono stati accettati alle scuole religiose. Il ché è veramente terribile, tutti hanno versato lacrime per la foto straziante di Aschalo Sama, un ragazzo al quale è stata negata la scuola. Perfino il Presidente Shimon Peres ha manifestato turbamento. A chiunque è permesso di essere turbato; è una cosa politicamente corretta.

Oh, come siamo belli, come sembriamo progressisti ai nostri occhi. Guardate come si lotta contro il razzismo, in modo risoluto ed intransigente. E tuttavia, in un batter d’occhio, ci si dimenticherà di questa onta, e si sarà lasciati con le molte altre espressioni di razzismo della società, alle quali, con aria assonnata, si resta indifferenti.
Questo è il nostro modo di essere. Di volta in volta, quando il liquame trabocca, e si diffonde da tutte le parti il fetore e non si può tenere stretto ulteriormente il nostro naso, tutti si grida contro l’ingiustizia fino a che, una volta ancora, il coperchio non viene sigillato. Di sotto, l’acqua continua a schiumare e a fare fetore, ma sarà coperta e contenuta.

E’ difficile sapere, per esempio, come molti genitori benpensanti e sprezzanti avrebbero accettato di iscrivere i loro figli in una classe dove ci fosse una maggioranza di bambini di origine etiope. E quanti affitterebbero un appartamento ad uno studente arabo? Ma sono lontani dal rendersi conto che è razzismo. E quanti genitori sono sconvolti dalla selezione notturna che avviene ai club dove i loro figli adolescenti vanno per divertirsi? Di routine, sono esclusi “altri” giovani – etiopi. arabi, drusi e talvolta anche mizrahim.Viene vietato l’ingresso a stranieri che abbiano la pelle scura e non si ode alcuna protesta.

Ogni giorno le guardie di sicurezza controllano le persone che entrano all’aeroporto internazionale Ben Gurion per sentire se hanno accento arabo e nessuno si lamenta. Questo non è razzismo. E’ come se avessimo organizzato per noi stessi un codice etico fatto di doppi o tripli principi morali. Lottiamo contro alcune espressioni, ma chiudiamo gli occhi nei confronti di altri esempi, di gran lunga peggiori.

Il caso degli allievi di Petah Tikva è la punta di un iceberg di razzismo. I bambini suscitano sentimenti particolari; rivelazioni vergognose sul sistema scolastico faranno sempre scandalo. Ma proprio in quella settimana in cui il paese era in collera a proposito degli etiopi, Nir Hasson aveva scritto su Haaretz che Gerusalemme investe 577 NIS all’anno per uno scolaro di Gerusalemme Est e 2.372 NIS per uno scolaro di Gerusalemme Ovest. Quattro volte meno, solo per la diversità etnica dei bambini. Tutto ciò, qui, non risulta essere razzismo. Neppure il fatto che a Gerusalemme Est mancano circa 1.000 aule scolastiche, solo perché i suoi abitanti sono palestinesi. Nessuno urla di fronte a queste rivelazioni, nessuno ne è infuriato, compreso il Presidente, che lotta contro il razzismo.

Ora che possiamo usare il termine “razzismo”, è giunto il momento di ammettere che la nostra società è totalmente razzista, che tutte le sue parti costituenti sono razziste. Il sistema giuridico, ad esempio, non è meno guasto della scuola Morasha di Petah Tikva. In molti casi c’è una legge per un ebreo ed un’altra per un arabo. La Banca d’Israele, una istituzione statale non meno della scuola Morasha, con i suoi 900 dipendenti, è risultata sempre “pulita” da impiegati arabi, tranne talvolta per uno o due. Circa 70.000 cittadini israeliani, tutti arabi naturalmente, vivono in villaggi non riconosciuti, senza elettricità o acqua corrente, senza una strada di accesso e, talvolta, senza una scuola. Perché? Perché sono arabi. Ogni settimana alle partite di calcio si sentono epiteti e canti razzisti, per i quali squadre di questo genere, in Europa, sarebbero penalizzate con severità. Qui, gli arbitri non si preoccupano neppure di segnalarli.

L’ultimo incidente si è verificato la settimana scorsa allo stadio di Doha a Sakhnin durante una partita tra il Bnei Sakhnin e il Beitar Gerusalemme.

E non abbiamo ancora detto nulla sull’atteggiamento nei confronti dei lavoratori stranieri, sull’occupazione (la più grande espressione di razzismo), e neppure sull’atteggiamento, fin dalla fondazione dello stato, verso i misrahim. La lista è lunga e vergognosa.

Anche quando tutti i bambini di Petah Tikva avessero trovato scuole da frequentare, nonostante la loro pelle nera, la società non cesserà di essere razzista. Si ritornerà molto rapidamente, come solito, agli affari e all’auto-compiacimento. Guarda quanto razzismo c’era qui, l’abbiamo combattuto ed è scomparso senza lasciare traccia.

http://www.haaretz.com/hasen/spages/1112050.html
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1473&Itemid=27

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