“Abbiamo un paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.”

Mahmud Darwish

mercoledì 23 febbraio 2011

LA RIVOLUZIONE ARABA E LA PALESTINA

di Germanno Monti

Contributo al dibattito del Forum Palestina e del movimento di solidarietà con il popolo palestinese

L’ondata rivoluzionaria partita dalla Tunisia è destinata a ridisegnare completamente lo scenario mediorientale, qualunque ne siano gli esiti nell’immediato. Dobbiamo partire da questa consapevolezza per comprendere come collocare l’iniziativa in solidarietà con la resistenza palestinese, un’iniziativa necessariamente contestualizzata nell’ambito di un quadro macroregionale destinato a mostrare caratteristiche profondamente diverse da quelle che abbiamo conosciuto fino ad ora.


Se non è ancora possibile definire quali potranno essere gli approdi finali delle rivoluzioni arabe, possiamo già dire che nulla sarà come prima. Per quanto riguarda la situazione palestinese (ma non solo), è evidente che il movimento più interessante e significativo è quello che riguarda l’Egitto, il più importante Paese arabo, da più di trenta anni ridotto al rango di semi-colonia israeliana.

La complicità del regime di Mubarak con lo Stato sionista è stata un pilastro della politica israeliana. L’accordo di Camp David ha garantito a Tel Aviv immensi vantaggi politici, economici e militari.

Dal punto di vista politico, il riconoscimento dello Stato ebraico da parte del Cairo ha inferto un colpo durissimo alla resistenza dei popoli arabi, determinando un rafforzamento della posizione israeliana che ha condizionato negativamente ogni movimento politico nell’area. Per quanto riguarda l’economia, Israele ha potuto usufruire di approvvigionamenti energetici, come il gas naturale del Sinai, a basso prezzo; ha potuto trarre profitto dalle attività di interscambio fra Egitto ed U.S.A., sottoposte alla clausola capestro in base alla quale queste attività devono essere in partnership con aziende israeliane; ha potuto, infine, investire nella florida attività turistica della zona del Mar Rosso.

Anche rispetto alla situazione militare, Israele ha tratto ogni vantaggio possibile dall’appeasement con l’Egitto: si è garantito la sicurezza sul confine meridionale, ottenendo la smilitarizzazione del Sinai e potendo così ottimizzare le forze in direzione nord e nord-est, verso Libano e Siria, visto che la Giordania – che comunque non rappresenta per Israele un pericolo militare – è a sua volta vincolata da un accordo di “pace” con Tel Aviv. Inoltre, il regime di Mubarak ha garantito ad Israele la partecipazione all’assedio della Striscia di Gaza, sigillandone il confine meridionale e bloccando il transito di merci e persone attraverso il valico di Rafah. Giova ricordare che Mubarak non allentò la morsa su Gaza nemmeno durante i bombardamenti di Piombo Fuso, sbattendo letteralmente la porta in faccia ai civili che cercavano scampo dal fosforo bianco e dalle altre armi di distruzione di massa.

Se è ancora presto per intuirne gli ulteriori passaggi, è già certo che la rivoluzione di Piazza Tahrir metterà in crisi lo statu quo anche riguardo le relazioni con Israele, vissute come un’umiliazione e un tradimento della solidarietà verso i fratelli palestinesi. Non è certo un caso se l’establishment sionista, a partire dal Presidente Peres, si è impegnato a fondo – inutilmente - nel sostegno al dittatore ed alla sua cricca, persino aldilà dell’Amministrazione U.S.A. e dell’UE, racimolando solo alleati impresentabili, come il “nostro” Berlusconi e il fantoccio palestinese Abu Mazen.

Le rivoluzioni non seguono mai percorsi lineari, e questa regola vale a maggior ragione quando, come in Egitto e negli altri Paesi arabi, decenni di dittatura hanno eliminato o messo a tacere ogni movimento di opposizione. Quello che è sicuro è che, comunque vada a finire nei prossimi mesi, nulla potrà più essere come prima, perché i popoli stanno infrangendo il muro della paura e il protagonismo di massa che vediamo in Egitto ed in Tunisia contagerà tutta la regione. L’assenza di iniziativa mostrata dalla sinistra e dai movimenti italiani è un sintomo del degrado intellettuale e del provincialismo che accomuna moderati e radicali nell’incomprensione e nell’incapacità, ma questa non è una novità. La vera novità, sotto gli occhi di tutti, è che chi, non molti anni fa, teorizzava la “fine della storia”, si è clamorosamente sbagliato: la Storia cammina, e con essa la voglia di libertà e di giustizia.

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Il vento di Piazza Tahrir raggiunge la Palestina occupata ed assediata, portando aria nuova in una situazione che appariva senza vie d’uscita.

I Palestinian papers non dicono nulla di nuovo. Non contengono rivelazioni sconvolgenti. Non aggiungono e non tolgono niente a quanto già si conosceva. Eppure, sono di straordinaria importanza. Come in Italia abbiamo visto all’epoca dell’inchiesta “Mani Pulite”, esiste una ricaduta sociale differente fra la vox populi, per quanto fondata, e la prova provata, quella che potremmo definire la certificazione, aldilà di ogni ragionevole (o irragionevole) dubbio, delle nefandezze del potere. Chi segue le vicende mediorientali non aveva certo bisogno dei Palestinian papers per farsi un’idea del ruolo svolto dalla sedicente Autorità Palestinese, perlomeno a partire dalla misteriosa morte di Yasser Arafat. Gli elementi politici e materiali della situazione palestinese sono da anni sotto gli occhi di tutti, a disposizione di chiunque abbia voglia di conoscerli.

Sono anni che sappiamo che gli uomini dell’Autorità Palestinese si coordinano con le truppe di occupazione sioniste per dare la caccia ai combattenti ed ai sostenitori della resistenza; sono anni che sappiamo che le forze armate dell’Autorità Palestinese, equipaggiate ed addestrate da “esperti” occidentali, rispondono agli ordini di generali statunitensi (Keith Dayton fino a qualche mese or sono, David Moeller attualmente); sono anni che sappiamo degli arresti e delle torture ai danni di militanti della resistenza operati dalle forze armate dell’Autorità; sono anni, infine, che sappiamo della corruzione dilagante della classe dirigente palestinese, caratteristica condivisa con le classi dirigenti di molti regimi arabi, in questo caso con l’aggravante del collaborazionismo con gli occupanti sionisti. Non è un caso che Abu Mazen sia stato uno dei pochi leader arabi (oltre a lui, solo il re saudita e il libico Gheddafi) ad esprimere solidarietà ai dittatori Ben Alì e Mubarak, nelle stesse ore in cui facevano sparare sul loro popolo.

Sono anni che sappiamo tutto questo, e che sappiamo come i “negoziati”, il “processo di pace” su cui si fonda l’esistenza stessa dell’Autorità Palestinese, non siano altro che la cortina fumogena ideata per nascondere al mondo la realtà della pulizia etnica della Palestina, del lento genocidio del popolo palestinese, effettuato scientificamente attraverso la colonizzazione e l’apartheid.

L’Autorità Palestinese è una sub-agenzia dell’occupazione israeliana, uno strumento che libera gli occupanti da alcune incombenze e garantisce ai collaborazionisti alcuni privilegi, a tutto danno del movimento di liberazione e della popolazione palestinese. Nessuno può più negare o ignorare questa evidenza. Di qui, la necessità di un comportamento politico conseguente.

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Ma non è solo sul lato del collaborazionismo dell’ANP che dobbiamo misurare i danni prodotti dall’architettura di Oslo: è innegabile, infatti, che la gestione della porzione di potere che si è trovata ad avere Hamas sta facendo emergere aspetti preoccupanti. Si moltiplicano le denunce di un imbarbarimento della vita sociale nella Striscia di Gaza che non ha nulla a che vedere con le esigenze della resistenza all’assedio. Che rapporto hanno con la resistenza le iniziative punitive nei confronti delle donne o dei giovani? Che rapporto ha con la resistenza il tentativo di imporre il velo nei tribunali alle donne avvocato? O i divieti ai concerti rap? Sembra che l’esercizio di uno pseudopotere finisca inevitabilmente per spostare ogni energia dal terreno del confronto con il nemico a quello del controllo interno, al punto che nemmeno la Striscia assediata riesce a sfuggire ai frutti avvelenati di Oslo.

Sia chiaro: non è possibile nessuna equidistanza fra collaborazionisti e resistenti, ma questo non significa rinunciare ad esercitare il sacrosanto diritto di critica nei confronti di questi ultimi, perché rinunciare alla dialettica in un movimento di liberazione significa rinunciare alla liberazione stessa.

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Allora, è necessario ed urgente ricollocare l’iniziativa del movimento di solidarietà con il popolo palestinese a partire da una visione lucida dell’esistente, nel quadro del nuovo protagonismo delle masse arabe. Oggi più che mai dobbiamo essere consapevoli che, se il solo alleato del popolo palestinese è il movimento di solidarietà, i nostri referenti sono il movimento palestinese di resistenza e le masse arabe e mediorientali in quanto tali, non i governi o i regimi, di qualunque natura.

Coerentemente con questa consapevolezza, dobbiamo considerare lo scioglimento dell’Autorità Palestinese come una prospettiva per il rilancio della lotta di liberazione. Dobbiamo individuare un percorso di iniziativa politica che contribuisca a riaprire quegli spazi che l’industria del processo di pace ha reso sempre più angusti, in Palestina e nel mondo.

Lo scioglimento dell’Autorità può restituire dinamismo alla lotta di liberazione e chiarezza per l’attualità e per le prospettive. La fine della finzione rappresentata da una parodia di entità statale, con i suoi improbabili ambasciatori nel mondo e le sue polizie al soldo degli occupanti, aiuterà la ripresa di iniziativa del popolo palestinese e – non da ultimo - restituirà alla potenza occupante le responsabilità che le competono: i Palestinesi sono un popolo sotto occupazione e, da che mondo è mondo, i popoli oppressi hanno il diritto di resistere, senza essere imbrigliati in oscene pantomime di rappresentazioni parastatali e senza dover mantenere l’ordine pubblico in nome e per conto degli occupanti.
Questo significa la restituzione della leadership del movimento di liberazione all’OLP? E’ possibile ed auspicabile, ma non certo all’OLP attuale, il cui grado di rappresentatività è vicino allo zero, visto che esclude gran parte delle organizzazioni palestinesi ed è guidata dagli stessi quisling di Ramallah.

Anche qui, non sono immaginabili automatismi di alcun genere: solo un’Organizzazione per la Liberazione della Palestina radicalmente rinnovata e liberata dalle scorie del passato e del presente può aspirare a rivestire il ruolo di legittimo rappresentante del popolo palestinese. Non esistono poteri e rappresentanze che si autolegittimano, privi di consenso e partecipazione. Questa è la realtà dei fatti, messa davanti agli occhi del mondo dal vento caldo della rivoluzione che soffia da Tunisi al Cairo, da Algeri a Sanaa, da Tripoli a Manama, un vento che porterà il profumo del gelsomino anche nelle strade di Gaza, di Gerusalemme e di Ramallah.

Se saranno i Palestinesi a dissolvere l’Autorità che non li rappresenta e li reprime, questo non potrà che fare un mondo di bene a tutte le organizzazioni palestinesi, a loro volta non più invischiate nei vincoli di accordi che Israele, peraltro, non ha mai rispettato. Da Hamas al Fronte Popolare, fino a quei militanti di Fatah che non ne possono più delle cricche dei vari Abu Mazen, Dahlan, Fayyad, tutti dovranno tornare a misurarsi sul terreno della resistenza e del rapporto con una società civile palestinese che esprime un’enorme vitalità ed una grande capacità di proposta. In fondo, ha perfettamente ragione Omar Barghouti, quando osserva che pochi anni di campagna popolare per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni hanno creato più problemi all’occupazione sionista di quanto non abbiano fatto decenni di insulsi negoziati.
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L’articolazione concreta di quanto qui enunciato, la linea di condotta politica del movimento di solidarietà con la Palestina, non potranno che formarsi all’interno di un dibattito che veda partecipi tutti gli attivisti e le strutture esistenti, a partire da quelle che fanno capo alla rete del Forum Palestina. Un dibattito non più rinviabile, perché la chiarezza politica è presupposto necessario dell’iniziativa, pena lo scadimento in una ritualità sempre più stanca ed inefficace. Le rivoluzioni arabe che stanno cambiando il mondo ci chiedono un salto di qualità nell’analisi e nella proposta. Adesso.

da Forum Palestina

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